mercoledì 17 marzo 2021

Serie B. Amoroso: "Non ho rimpianti ma ora mi conosco meglio"

 A 40 anni Valerio è tornato a Roseto dove mosse nel 1998 i primi passi di una carriera lunga ma meno ricca dei risultati che avrebbe meritato

Amoroso: "Non ho rimpianti

ma ora mi conosco meglio"

Carattere di fuoco, senza peli sulla lingua, spesso scomodo, ammette: "Sono fatto così, e certe volte avrei dovuto reagire in maniera diversa". Ma questa è anche la sua forza, che l'ha portato a farsi apprezzare più nei piccoli centri che nelle metropoli: "Perché lì c'è più passione e più disponibilità a conoscerti come realmente sei, dandoti fiducia"


di Giovanni Bocciero*


DA ROSETO A ROSETO. Nel mezzo una carriera lunga 23 stagioni. A 40 anni Valerio Amoroso è ancora in prima linea, a dare battaglia come se fosse il primo giorno. E con la Pallacanestro Roseto, impegnata in serie B, non si pone limiti. «Siamo partiti abbastanza bene ma si può fare sempre meglio - ha esordito l’atleta -, anche perché in squadra ci sono ragazzi in gamba che si impegnano dalla mattina alla sera. Mi aspetto un’ottima annata perché comunque abbiamo tanto talento e c’è la possibilità di poter fare davvero bene. Roseto poi è una piazza che in questo momento ha bisogno di rialzare la testa. Viene da due anni di Stella Azzurra nei quali ci si è un po’ disaffezionati al basket perché i tifosi non sentivano propria la squadra. La mancanza di pubblico è pesante perché qui si può arrivare anche a 4 mila spettatori. Non c’è questa forza in più che ci spinge, però a differenza di quando ho avuto la mia prima esperienza sono passati tanti anni e sono cambiate tante cose, ad iniziare da come si gioca. Prima si respirava un’aria diversa - ha continuato Valerio - perché c’era il tifo organizzato e se camminavi per strada la gente ti fermava. Oggi c’è un distacco ancora più marcato anche a causa del Covid che ha stravolto un po’ tutto».

Valerio Amoroso, 40 anni, Roseto ha puntato su un amato
cavallo di ritorno per il rilancio (foto Tommarelli)
Amoroso è arrivato a Roseto la prima volta nel 1998, e vi è rimasto sino al 2002 facendo l’esordio in A1. La squadra era stata appena promossa in A2 e si stava rilanciando dopo i fasti degli anni ’50. Nel 2000 centra la storica promozione in massima serie, dove vi rimane per sei campionati consecutivi. Nell’estate del 2006, causa problemi economici, la società viene estromessa dalla A. Riparte nel 2008 dalla LegaDue grazie al trasferimento del titolo di Fabriano, ma a fine stagione retrocede e fallisce di nuovo. Con il nome Roseto Sharks riparte dalla C2, e grazie a promozioni e ripescaggi il club ci impiega quattro anni per ritornare in A2. Nelle ultime due stagioni ha collaborato con la Stella Azzurra Roma per formare dei roster con giovani talenti. Ma l’estate scorsa è terminato questo connubio, e così si è dato vita ad un consorzio che ha rilevato il titolo sportivo di Lecco. E quest’anno si festeggia un secolo di pallacanestro, che è arrivata in città nel 1921.

L’ala napoletana, che a Roseto era arrivato come astro nascente, oggi è tra i pilastri della squadra di coach Tony Trullo. Ma non chiamatelo chioccia, perché «questo ruolo spetta al capitano Antonio Ruggiero. È lui che ci fa da mentore, da leader in campo e fuori. È lui la figura di riferimento a cui guardiamo». Lui preferisce impegnarsi a dare il suo contributo. «A me piace lottare, mettermi in gioco, lavorare e farlo per bene. È ciò che faccio da una vita. Quando i momenti sono difficili e c’è da combattere, di sicuro io do il meglio di me perché mi piace stare in quelle situazioni. Sono a mio agio». Ma proprio questa sua grinta lo ha portato spesso ad essere odiato dal pubblico avversario. «In realtà a volte non piaccio neppure a quello di casa - ha puntualizzato Valerio -. A Caserta, mentre giocavo per la Juve, facevano cori contro mia madre. Ma io gioco per me, per quello che faccio e che sono. Magari per questo è più facile odiarmi».

DA SAN SEBASTIANO AL VESUVIO alla serie A, cosa serve per riuscire in una parabola come la tua? «Credo che quello che ho vissuto io non lo vivano i ragazzi di oggi, dove tutto è più semplice, più leggero. Alla loro età avevo meno possibilità, ma buttavo l’anima ogni giorno. Si poteva sbagliare davvero poco perché c’era più competizione e c’erano persone meno competenti. Con il tempo ho capito e apprezzato cosa significasse lavorare - ha continuato Amoroso -, e che il talento non basta per arrivare a certi livelli. Adesso invece di competenza ce n’è tanta e basta informarsi per cercare il posto giusto dove giocare. Al contrario, è diminuita la passione e c’è difficoltà a trovare ragazzi che vogliano davvero sacrificarsi». Forse è questo il marchio di fabbrica che permette al suo amico Poeta di essere ancora decisivo in A. «Peppe è un grande giocatore e se lo merita. Sta fisicamente molto bene, ma si impegna tanto e lo si vede da come gioca. Se però dei vecchietti come noi riescono ancora a fare la differenza in determinate categorie vorrà pur dire qualcosa. Il basket è certamente cambiato, ma se in meglio o in peggio non ne ho idea».

Per il lungo nato a Cercola in provincia di Napoli
una carriera di successi (foto Tommarelli)
Nel corso della carriera gli sono state affibbiate diverse etichette, che ne hanno condizionato il percorso, ma «non ho alcun rimpianto. Solo mi dispiace per come sono fatto. Probabilmente avrei dovuto reagire in modi diversi in determinate situazioni. Ora mi rendo conto che molti miei malumori dipendono da come sono fatto. Adesso che sono maturo è più facile gestire i colpi di testa, capire quando e perché sbrocco. Importante è chiarirsi sin dall’inizio, e purtroppo non l’ho capito prima. Questo è forse il mio più grande rammarico. Ma bisogna fare determinate esperienze anche per imparare a conoscersi meglio». In carriera ha vestito canotte prestigiose come quelle della Virtus Bologna e della Vuelle Pesaro, eppure il meglio di sé l’ha fatto vedere in provincia, a Montegranaro, a Teramo. «Forse nei posti più piccoli ho trovato persone che mi hanno voluto conoscere per quello che sono, che mi hanno ascoltato e capito. Nelle grandi metropoli, dove girano più soldi, in fin dei conti è più difficile trovare gente del genere. Anzi, ci sono persone che pensano principalmente al proprio profitto. Nelle piccole città c’è invece più passione, e con gente che mette avanti a tutto la passione e non il proprio tornaconto personale - ha evidenziato Amoroso - i rapporti cambiano. E quando si incontrano persone in gamba, che sanno capire gli altri, si guadagna fiducia. Questo è quello che ad esempio non ho trovato in Nazionale, dove infatti sono stato malissimo». Il lungo conta 40 presenze in Azzurro, ma a livello senior non è andato oltre le Qualificazioni di Euro 2009. E oggi «quello che sto vedendo, a dire la verità, non mi piace tanto. Non voglio essere negativo, ma da ciò che ricordo il Ct Sacchetti ha sempre preferito gli stranieri. Affidargli la panchina dell’Italia è stata una scelta che non mi ha fatto impazzire. Però forse sono la persona sbagliata per parlarne».

Talento e punti nelle mani: anche a 40 anni un pericolo
costante per le difese (foto Tommarelli)
Nel rapporto con gli allenatori non è sempre stato fortunato, anche perché è un ragazzo che cerca un dialogo che spesso va oltre alla semplice impartizione degli schemi di gioco. «Io ragiono sulle cose, rifletto. Ho bisogno che il coach mi spieghi e mi motivi per arrivare a credere in ciò che sto facendo, ma se non riesce a comunicarmi queste sensazioni, faccio fatica. Prima impazzivo e basta, oggi invece comunico prima di impazzire. Questo è un problema che riguarda tutti, ecco perché vado sempre alla ricerca della giusta comunicazione». Insomma ha bisogno di essere reso partecipe per dare il massimo, e questo è sinonimo di un giocatore che pur se ha vinto due titoli italiani di 1-vs-1 (battendo Marco Belinelli nel 2004), tiene al gioco di squadra. «Ci sono giocatori e giocatori. C’è chi riesce a pensare solo a se stesso e si concentra per fare bene personalmente, e c’è chi invece è alla ricerca di soddisfazioni sia personali che di squadra. Io preferisco giocare in una squadra che sia composta da giocatori altruisti, ma capisco che ci sono modi e modi di vedere la pallacanestro. Se sei individualista non riesci a vedere altro che il tuo gioco e il modo di come fare canestro. Questa non è una colpa, ma un limite. Me ne sono accorto parlandone con alcuni coach - ha sottolineato Valerio -, che diversi giocatori americani non è che non volessero, ma proprio non ci arrivavano a capire il gioco di squadra. Era come parlare arabo con loro. E dunque prendi il giocatore così com’è e lo sfrutti per il bene della squadra. Lui è contento, tutti sono contenti».

MA COSA FARA' AMOROSO una volta terminata la carriera da giocatore? «Mi piacerebbe rimanere nella pallacanestro, ma bisogna vedere un po’ di cose. In primis ciò che la vita ti offre. A me piace leggere il gioco, stare a contatto con i giocatori, gestirli, capirli. Non escludo di fare il dirigente o l’allenatore, ruoli entrambi fattibili. Bisogna però vedere cosa c’è in giro. Sto studiando per diventare allenatore, ma è tutto un work in progress. L’importante è trovare qualcuno voglioso di investire e costruire». Lui, napoletano purosangue, ha un grande cruccio che si porterà per sempre dietro. «Noi giocatori difficilmente siamo profeti in patria. Casa mia ormai è Civitanova Marche e a Napoli ci torno per trovare i genitori. Da noi c’è sempre stata la mentalità che l’atleta straniero è più forte di quello sotto casa. Quindi non ho mai avuto l’opportunità di mettermi in mostra a casa mia, cosa che mi sarebbe piaciuta tanto. Ho avuto l’occasione a Scafati, da giovane - ricorda Valerio -, ma sono andato via. A Caserta, da napoletano, l’esperienza è andata malissimo. Insomma, nel proprio luogo di nascita non si è mai visti bene quanto invece lo si è lontano, dove non ti conoscono e ti apprezzano per quello che sei».


* per la rivista BASKET MAGAZINE