Le parole dei protagonisti di quell'impresa, l'emozione che ancora suscita in chi l'ha vissuta regalando al nostro sport e agli appassionati di basket la prima grande vittoria europea
A quarant'anni di distanza il ricordo dell'oro di Nantes
Brunamonti, Gilardi, Riva, Sacchetti e Villalta raccontano: «Eravamo amici dentro e fuori dal campo. Abbiamo indicato la strada: dopo di noi una scia di successi per almeno vent'anni»
di
Giovanni Bocciero*
NANTES
’83 rimarrà per sempre il successo che ha tracciato la strada per l’Italia dei
canestri. Il primo grande appuntamento nel quale la nazionale riuscì a salire
sul tetto d’Europa imponendosi sull’Est Europa, che con Jugoslavia e Unione
Sovietica aveva sempre dominato la competizione. Nelle parole dei protagonisti
in campo si può avvertire ancora oggi, a distanza di 40 anni, un’emozione
indescrivibile.
«Nonostante
i tanti anni l’emozione è sempre molto grande, perché è stata una tappa
fondamentale della carriera mia e dei miei compagni -
ha esordito Roberto Brunamonti -. Era il primo Europeo che vincevamo, e lo
vincemmo in maniera meritata e da imbattuti». «L’emozione è quella di
esser stati parte di una squadra che ha compiuto un’impresa della quale se ne
parla ancora - ha commentato Enrico Gilardi -. Fortunatamente quella
vittoria è stata poi replicata, ma noi siamo stati i primi ad ottenere un
risultato che a quei tempi era inimmaginabile che potesse essere alla nostra
portata». «Non ce n’è solo una ma sono tante le emozioni provate in quel
Europeo - ha ricordato Antonello Riva -. Dalla vittoria in volata all’esordio
contro la Spagna alla famosa rissa con la Jugoslavia, un turbinio di sensazioni
che ci ha aiutato ad avere una crescita costante nell’arco del torneo». «È
una delle poche vittorie da giocatore - ha dichiarato Sacchetti -, ed è
per me una cosa indimenticabile. Quando abbiamo festeggiato ho preso una botta
all’occhio, ed è per questo che nelle foto porto sempre gli occhiali». «La
corsa di Caglieris col pallone sotto al braccio e la commozione di Aldo
Giordani - ha rammentato Renato Villalta - sono momenti indimenticabili».
Quell’Italia
del ct Sandro Gamba, con gran parte dei protagonisti a formare uno zoccolo
duro, arrivava dall’argento alle Olimpiadi di Mosca del 1980, quelle del
boicottaggio statunitense. All’Europeo dell’81 si classificò quinta e per
questo non partecipò al Mondiale dell’anno successivo. Durante la preparazione
perse due volte contro la Jugoslavia, con cui ci fu una vera e propria resa dei
conti con la vittoria nella famigerata gara della rissa durante il girone di
qualificazione. Girone inaugurato con un’altra sofferta vittoria contro la
Spagna, avversaria ribattuta poi in finale. Un’impresa che per il movimento
italiano «ha rappresentato un punto di partenza - secondo Brunamonti -.
Per la pallacanestro italiana ha significato entrare nell’olimpo delle nazioni
che potevano fregiarsi di determinate vittorie e medaglie. Siamo stati la
generazione che ha indicato la strada, e ne è seguita una scia sulla quale si
sono susseguite altre grandi nazionali che hanno rinverdito e ripetuto quei
successi con altrettanto merito ed importanza». «Quel successo ha dato
fama e pubblicità a tutto il movimento - secondo Villalta -. Tutti i
giornali ne parlavano, e i tifosi ci aspettarono al rientro a Milano. È vero
che venivamo dall’argento di Mosca, ma l’oro ha un sapore particolare». «Eravamo
partiti un po’ sfiduciati perché la preparazione non era stata il massimo -
ha ricordato Sacchetti -, nonostante sulla carta eravamo un’ottima squadra.
Poi la vittoria rocambolesca con la Spagna ha acceso in noi una fiamma, e sull’onda
di quella spinta abbiamo costruito la vittoria con la quale abbiamo aperto una
porta importante per tutto il movimento»». «Quel successo è stato da traino anche
se in quegli anni abbiamo toccato l’apice con il nostro movimento anche a
livello di club - ha riflettuto Riva -. Il basket si è avvicinato tanto
alle persone ed è entrato nelle case degli italiani quasi ad eguagliare il
calcio».
In
effetti se l’oro di Nantes era la prima grande affermazione della nazionale
azzurra, le squadre italiane avevano già vinto tanto in Europa. Varese dal 1970
aveva disputato dieci finali consecutive di Coppa Campioni, vincendone 5, Cantù
fece la doppietta nell’82 ed ’83 in un derby con Milano, e Roma vinse nell’84.
Milano, Cantù e Varese conquistarono ininterrottamente la Coppa Saporta dal
1976 all’81, e Pesaro alzò quella dell’83. In Coppa Korac si affermò Rieti
nell’80, nell’85 ci fu il derby tra Milano e Varese e nell’86 quello tra Roma e
Caserta. Insomma, «la questione di fondo è che i giocatori italiani avevano
un maggiore minutaggio nelle coppe europee - ha continuato Riva -.
Eravamo fortunati avendo solo due stranieri, così da avere più opportunità per
maturare, per fare esperienza e per crescere a livello internazionale».
Non
solo però la possibilità di giocare, «quel gruppo ha rappresentato la
capacità di mettere insieme generazioni differenti - ha rimarcato Gilardi -.
C’erano i Meneghin e i Marzorati che di storia in nazionale ne avevano già
percorsa; c’erano dei giovani come me, Riva e Brunamonti sui quali si poteva
contare per il futuro; e poi ragazzi come Caglieris o Sacchetti che non erano stati
valorizzati a dovere nel passato. Ne uscì fuori un mix ben riuscito grazie
anche alle capacità di ognuno di noi di mettersi a disposizione e di
rispettarsi l’un l’altro. Questa tale diversità è diventata un’omogeneità che è
stato il nostro segreto». «Quella squadra si fondava su un gruppo unito -
secondo Sacchetti -, e per come era strutturata era facile giocare insieme.
Ma ha dovuto comunque lottare, ha rischiato, e compattandosi ha portato a casa
il risultato». «Eravamo amici in campo ma anche fuori. Ci fidavamo l’uno
dell’altro - secondo Villalta - grazie anche alla sapiente conduzione di
Gamba. Avevamo il senso di rappresentare l’Italia, una cosa che ai nostri tempi
voleva dire il massimo dell’ambizione per un atleta. E la lite con la
Jugoslavia ci cementò».
La
nazionale di Nantes era composta anche da nuclei di giocatori che già giocavano
insieme nei club, come i virtussini Bonamico, Brunamonti e Villalta, la coppia canturina
Marzorati-Riva, e il terzetto di Torino composto da Sacchetti, Vecchiato e
Caglieris. Un aspetto che riguarda anche l’attuale nazionale, composta per la
maggiore da atleti di Olimpia e Virtus. «È ed era una casualità - ha
commentato Villalta -. I migliori giocatori si raggruppano nelle migliori
squadre, ma all’epoca il campionato italiano era più omogeneo da questo punto
di vista». «Credo fortemente nelle scelte dettate da caratteristiche
tecniche ed umane dei singoli e non nei blocchi dei club - secondo Gilardi
-. I giocatori di quella nazionale erano gli elementi migliori per
costituire un gruppo che avesse una ben definita identità tecnica. Avevamo
trovato la nostra quadratura anche nel saper cambiare modo di giocare in base
agli elementi che venivano chiamati in causa. Ogni giocatore aveva le sue
caratteristiche, e in base alle situazioni tutti venivano valorizzati, creando
delle miscele completamente diverse in ogni gara».
Di
fatto Marzorati segnò il canestro della vittoria con la Spagna all’esordio, Meneghin
giganteggiò con la Grecia, Riva bersagliò la Francia, Gilardi tagliò a fette la
Jugoslavia nel match della rissa, e Villalta fu il miglior marcatore della
finale. E nonostante l’Italia conquistò la medaglia d’oro, il miglior quintetto
dell’Europeo contava gli spagnoli Corbalan e San Epifanio, il greco Galis, il ‘sovietico’
Sabonis ed il ceco Kropilak. «Non eravamo dipendenti da un singolo, ma a
rotazione avevamo un protagonista diverso - ha continuato Gilardi -. Nel
nostro gioco non c’era spazio per far emerge l’individualità ma ognuno doveva
portare il proprio contributo».
Dopo
Nantes c’è stato un secondo ciclo vincente per la nazionale, quello a cavallo
tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del 2000, che prima con Tanjevic e poi
con Recalcati come ct arrivò a bissare la vittoria dell’Europeo nel 1999 a
Parigi e la conquista della medaglia d’argento all’Olimpiade di Atene 2004. Ci
si aspettavano successi anche dalla nazionale degli Nba, quella che poteva
contare sui vari Bargnani, Gallinari, Belinelli, Datome, Gentile ed Hackett, e
invece quella squadra fallì addirittura il Pre-olimpico di Torino del 2016. «Il
discorso da fare è ampio e profondo - secondo Riva -. Mi riduco a dire
che quel ciclo non ha portato risultati perché in Nba si gioca un basket
differente. È stato sempre difficile, sia per i giocatori riadattarsi al gioco
europeo, che per gli allenatori riuscire a metterli insieme a chi giocava nel
nostro campionato». «Quella squadra potenzialmente molto forte non ha ottenuto
risultati perché lo sport insegna che non è mai semplice - ha detto
Sacchetti -. Adesso dobbiamo guardare avanti e seppur il periodo difficile
non ci si deve accontentare di qualificazioni e piazzamenti».
In vista dei prossimi
Mondiali «le prospettive sono molto buone - il parere di Brunamonti -.
Vedo un gruppo, uno zoccolo duro, che dopo aver riconquistato l’Olimpiade sta
dimostrando grande compattezza, sulla stessa lunghezza d’onda dell’allenatore, e
con dei giovani che possono dare continuità al gruppo e a questa generazione».
«Il gruppo è affiatato. Ci manca un centro - l’analisi di Sacchetti -,
ma nonostante ciò siamo arrivati quasi a conquistare una medaglia agli ultimi
Europei. Sono convinto che possiamo fare un exploit. Il passaggio successivo è
capire cosa ci aspetta dal futuro quando passerà anche la generazione dei
Melli». «Molto dipenderà da come si evolverà la situazione legata a
Banchero - secondo Riva -, che è un giocatore che sposta gli equilibri.
Per quanto riguarda Pozzecco, credo sia l’uomo giusto, al posto giusto, al
momento giusto. C’era bisogno di qualcuno che richiamasse interesse intorno
alla nazionale anche fuori dal campo». «C’è un aspetto sul quale non mi
capacito - la chiosa di Villalta -. Per noi la nazionale era un
obiettivo, oggi è per molti addirittura una scocciatura. Vedere atleti che
rinunciano alla maglia azzurra perché devono riposarsi non è accettabile».
* per la rivista Basket Magazine