lunedì 19 dicembre 2022

Il Regno Unito per il basket: un bacino dal potenziale incredibile

Il Regno Unito per il basket:
un bacino dal potenziale incredibile


di Giovanni Bocciero*


Spesso basket e Regno Unito nella stessa frase quasi stonano. Almeno per quanto riguarda la Bbl, ovvero la British Basketball League. La pallacanestro oltremanica non è mai riuscita ad attecchire veramente. Nonostante la Nba ci provi da anni con il match della stagione regolare che viene disputato regolarmente in un impianto all’avanguardia come la o2 Arena di Londra. Due settimane fa c’ha provato persino la Ncaa, che ha portato quattro università, tra cui due nobili come Michigan e Kentucky, a giocare due match di campionato. Ambiente caldo, atmosfera bella, ma i 20mila posti dell’arena non sono andati proprio esauriti.

Eppure, nel viaggio appena fatto a Londra abbiamo potuto vedere come in realtà il basket attecchisca molto tra i giovanissimi, con playground ben tenuti e molto diffusi. In meno di un miglio, circa 1,5 km,  ne abbiamo trovati addirittura tre, due pubblici ed uno incastonato, o forse meglio dire nascosto, in una scuola elementare. La fascia d’età fino all’adolescenza è senz’altro quella più avvezza alla pratica del basket, poi qualcosa s’inceppa. C’è un intoppo che polverizza un enorme bacino d’utenza, ed è così che giocatori inglesi come Carl Wheatle, oggi a Pistoia, o Quinn Ellis, in prestito a Casale da Trento, preferiscono lasciare giovanissimi il loro paese per provare a crescere e maturare altrove.


Nelle ultime stagioni la lega britannica ha aumentato il proprio livello, di poco paragonabile ad una nostra A2, anche perché per una questione fiscale sono riusciti ad aumentare il tetto degli ingaggi permettendosi così giocatori di buona caratura. Con il crescente aumento dei giocatori americani, di conseguenza si è alzata la competitività, con palazzetti belli, pieni, e con una discreta copertura televisiva. Senza il rischio retrocessione, il modo di operare si avvicina molto a quella che è la realtà statunitense, con una programmazione che vede disputare partite durante la settimana ed anche più di una in fila all’altra per poi avere diversi periodi di pausa.

La maggior parte dei club del campionato britannico sono comunque molto legate alle realtà universitarie, per questo utilizzano le loro strutture. Le società che nel corso degli anni sono riuscite a costruirsi le proprie arene, come Newcastle o Leicester, hanno iniziato anche a fare una buona attività di academy, come ci ha raccontato Domenico Pezzella, gm di Chieti e procuratore che ha portato diversi atleti a giocare in Gran Bretagna. Seppur ci sia un discreto seguito, gli stessi London Lions che disputano l’Eurocup, non sempre giocano alla 02 Arena, la quale sarebbe effettivamente difficile da riempire con i suoi 20mila posti se non per un match davvero di cartello. Alla fine il calcio la fa sempre da padrone, e purtroppo la Bbl sembra destinata a rimanere un campionato un po’ mediocre, seppur la Nba e da poco anche la Fiba spingano per attrarre soprattutto il mercato legato alla città di Londra.


Phil, appassionato inglese di basket, ci ha raccontato che per loro la pallacanestro è la Nba e non l’Eurolega, che segue poco e della quale conosce pochissimi giocatori. Questo allontana ancor di più il Regno Unito dall’Europa, non solo per questioni politiche. Abbiamo però detto che diverse squadre professioniste utilizzano strutture delle università, eppure non riescono ad incanalare gran parte del bacino di ragazzini che sin da piccoli giocano a basket. Un problema è la scarsa bravura degli allenatori, ci ha raccontato invece Mark, i quali hanno dei grossi limiti sia tecnici che tattici. E’ per questo che alcuni ragazzi provano ad andare a giocare all’estero, in particolar mano nelle high school e poi nei college statunitensi. Perché lì possono misurarsi con avversari e allenatori preparati.

Un vero peccato, perché non tutti possono permettersi di lasciare il proprio paese, non solo per una questione economica ma anche affettiva. E fa ancor più riflettere che mentre l’ippica riceve all’incirca 18 milioni di euro annui dallo stato come sostegno per le proprie attività, il basket non percepisce nulla, nessun tipo di sostentamento statale. Sembra quasi che la pallacanestro sia trattato come uno sport per privilegiati, ci ha continuato a dire Phil, anche se in realtà è quello maggiormente praticato per strada e tra i ragazzini. Non è un caso se gli ultimi Europei sono stati trasmessi da 23 paesi partecipanti, sia su tv in chiaro che private, e solo in Gran Bretagna no. Alla fine, sembra essere solo questione prettamente culturale, quando in realtà il paese potrebbe essere un bacino non indifferente per il basket mondiale.


* per la testata Basket Magazine

La Ncaa a Londra, atmosfera, colori e storie

La Ncaa a Londra, atmosfera, colori e storie


di Giovanni Bocciero*

Non è stata la sua innata bellezza, rappresentata da monumenti come il Big Ben o il Tower Bridge, oppure le luci natalizie che in questo periodo rendono ancora più magica Piccadilly Circus. Londra è stata meta di centinaia di tifosi ed appassionati della Ncaa, noi compresi, per l’evento del London Showcase organizzato dalla Basketball Hall of Fame di Springfield all’impianto della 02 Arena. Un ritorno in Europa e in particolare nel Regno Unito per il college basket a distanza di qualche anno, dopo le esibizioni di Belfast, e soprattutto dopo essersi messi quasi completamente alle spalle la pandemia. In campo domenica scorsa quattro università, antipasto con la sfida tra Maine e Marist e piatto forte rappresentato dall’incontro tra due grandi nobili come Michigan e Kentucky.

Non c’erano di certo manifesti e cartelloni pubblicitari a ricordare l’evento di pallacanestro londinese, così come ad esempio avviene a Roma per il Sei Nazioni di rugby per intenderci. E non è successo di imbatterci nelle squadre o in tifosi in giro per la città. Ma man mano che si avvicinava l’ora del big match tra Wildcats e Wolverines, bastava andare in metropolitana in direzione di North Greenwich per iniziare a scorgere qualche felpa di entrambe le fedi sotto al cappotto, o qualche accessorio come sciarpa e cappello che si mimetizzavano tra i vagoni spesso affollati.

Più ci si avvicinava all’arena e più l’area si faceva frizzante, come è logico che avvenga per ogni evento di cartello. Tanti i tifosi americani che si sono imbarcati nella trasferta transoceanica per non perdersi questo appuntamento, come due coppie in particolare. Liam, sfegatato tifoso Cats, e Maeve, con t-shirt sulla quale campeggiava la scritta Michigan e riempita da un pancione in dolce attesa. Oppure Karl e Maggie, entrambi provenienti dal Kentucky ma lui sostenitore della Big Blue Nation e lei parteggiate per gli acerrimi rivali dei Cardinals di Louisville. L’amore e qualche birra, alla fine, mette tutti d’accordo.

Una tifosa dei Wildcats a bordo campo si fa scattare una foto
mentre Hunter Dickinson completa il riscaldamento

I 20 mila posti della O2 Arena, ad onor del vero, non erano esauriti ma il calore non è mancato. Tant'è che il centro di Kentucky Oscar Tshiebwe nel post partita ha detto di essersi sentito come a casa. Nonostante l'importanza però, questo evento non era targato Nba, come ci ha ricordato Phil, un appassionato inglese che si è accomodato in tribuna con la sua bella casacca dei Sacramento Kings. Sul retro il nome di DeMarcus Cousins, giocatore che ci ha detto di amare alla follia e per questo, di riflesso, diventato un tifoso di Kentucky anche se non segue le vicende sportive della squadra in maniera continua. Tifa Duke l’amico Mark, anche lui di riflesso perché ama i Boston Celtics ed in particolare Jayson Tatum che proprio dall’università di Durham è uscito. Ma anche se in campo non c’erano i Blue Devils, a questo incontro non si poteva mancare.

Oh, e qui apriamo una piccola parentesi. Il buon Mark, insieme a Phil, non sono voluti mancare alla partita anche perché nell'impianto non mancano gli svaghi al termine dell'incontro. Più così come altri diversi locali di più o meno famose catene, bar, sale giochi, negozi di lusso e chi più ne ha più ne metta. E solo due giorni prima l’arena aveva ospitato un concerto. E dopo circa un’ora dalla sirena del match, il tempo di andare in conferenza stampa, gli addetti avevano già smontato metà parquet per preparare l’arena all’evento successivo. Siamo anni luce indietro.

Per onor di cronaca, perché non dobbiamo dimenticare che siamo stati lì particolarmente per veder giocare le squadre, nella prima gara Marist l’ha spuntata 62-61 su Maine che ha avuto due tiri consecutivi per vincerla. Kentucky ha invece battuto Michigan 73-69 dopo un match equilibrato con una folata per tempo. I ragazzi di coach Juwan Howard hanno provato la rimonta finale con un Hunter Dickinson (23 punti e 9 rimbalzi) che nel secondo tempo ha dominato sotto canestro. Ma i cinque giocatori in doppia cifra e soprattutto il computo dei rimbalzi da 46 a 33 ha premiato meritatamente i Wildcats di coach John Calipari.

E pace per Michael e Daniel, i fratelli di Ann Arbor arrivati a Londra per sostenere i Wolverines con tutto il loro affetto. Persino indossando due costumi da mucca con sopra le magliette della squadra a celebrare l’uno lo stesso Howard (no. 25) e l’altro l’indimenticato Trey Burke (no. 3) che nel 2013 trascinò Michigan fino alla finale per il titolo persa contro Louisville. Rispetto ad una classica gara di college mancavano le bande musicali e le cheerleader, ma il punteggio non ha mai condizionato l’atmosfera della partita con i tifosi sparsi un po’ a macchia di leopardo sulle tribune e pronti ad intonare i noti cori ‘Go Blue’ e ‘Big Blue Nation’.

L’atmosfera, gli spalti, le attività collaterali. E persino il viaggio di ritorno in metropolitana ha regalato un quadretto interessante. Seduti l’una di fronte all’altra due coppie di tifosi sui 60 anni circa. Quella di sinistra tifosa di Kentucky. Quella di destra parteggiante di Michigan. A rompere il ghiaccio la donna del Kentucky: “Una partita con meno di cinque punti di scarto è sempre una bella partita”, riferendosi agli ‘avversari’. “Absolutely”, la risposta secca dell’uomo del Michigan. E poi hanno continuato a chiacchierare della partita, della città, dell’odio comune per Michigan State che proprio in occasione dello scorso Champions Classic ha battuto i Wildcats, per finire a parlare delle proprie vite personali, come l’uomo del Kentucky che ha raccontato di aver lavorato per un periodo proprio ad Ann Arbor.

Scendendo dalla metropolitana, e chiudendosi le porte del vagone alle spalle, è terminata questa avventura a contatto, seppur per poche ore, con quell’ambiente del quale siamo follemente appassionati. “È stata un’esperienza incredibile e di crescita”, come detto all’unisono dai due allenatori, pronti a ritornare negli States per gettarsi a capofitto nel momento clou della stagione.


* per la testata BasketballNcaa.com

sabato 15 ottobre 2022

I campioni di Eurobasket: la 'familia' non tradisce

Smentito una volta di più chi parlava di Spagna più debole per l'assenza di tanti veterani

La 'familia' non tradisce

Seleccion inesauribile con Scariolo che porta gradualmente in condizione la squadra al massimo del rendimento e dell'autostima


di Giovanni Bocciero*

 

BERLINO - “È finito il ciclo vincente”. “Deve pensare solo a ricostruire”. Questi i commenti che avevano anche delle verità come fondamenta. Eppure la Spagna è ritornata sul tetto d’Europa nonostante fossero davvero in pochi a credere in una vittoria degli iberici guidati da Sergio Scariolo. Il ct, che ha avuto la benedizione in persona del vate Valerio Bianchini, del quale è stato assistente ai tempi della Scavolini Pesaro, ha dimostrato ancora una volta quanto è importante conoscere la propria squadra, e a maggior ragione conoscere gli avversari. Dopotutto, se all’età di 29 anni guidi la tua squadra, quella stessa Scavolini, a vincere lo scudetto, significa che di pallacanestro qualcosa ne devi pur sempre capire. E Bianchini gli ha dato la sua benedizione proprio perché Scariolo ha fatto conciliare in questo cammino europeo la pallacanestro tradizionale con quella contemporanea, composta da un gioco collettivo che deve tenere ben presente la tecnica quanto la tattica, tanto offensiva quanto difensiva, puntando sulla transizione ed il tiro da tre punti che sono molto più congeniali ai tempi d’oggi. Ma soprattutto, senza che le emozioni dominino sulle vicende sportive, perché farsi prendere dal momento ed essere poco lucidi costringono a prendere una decisione che il più delle volte non ti porta e nemmeno ti avvicina all’obiettivo che chiunque abbia preso parte a questo Eurobasket aveva: vincere.

Il ct Sergio Scariolo, al suo quarto Eurobasket vinto

Naturalmente non possiamo paragonare il successo della Spagna ad un impresa sportiva, perché dopotutto c’è il palmares che parla. Per le ‘furie rosse’ di Scariolo (prima coach dal 2009 al 2012 e poi di nuovo dal 2015) si tratta dell’ottava medaglia conquista tra Europei, Mondiali ed Olimpiadi. Dunque, non possiamo che parlare di lui e dei suoi giocatori come di una vera e propria dinastia, per la quale nel corso degli anni pur se sono cambiati alcuni interpreti non si è modificata la cultura del successo che li ha portati a trionfare di nuovo a Berlino. Senza Ricky Rubio, senza il Chacho Rodriguez, senza l’ultimo infortunato Sergio Llull, al posto del quale ormai in partenza per l’Eurobasket è stato richiamato Alberto Diaz. Sì, proprio colui che è stato capace di mettere la museruola ad un immarcabile Dennis Schroder nella semifinale vinta contro i padroni di casa della Germania in una Mercedes Benz Arena stracolma con 16 mila spettatori, tanti dei quali per lo più tedeschi molto rumorosi.

Ma forse proprio da quella partita si possono estrapolare due lezioni molto importanti. La prima è di natura algebrica ma cade a pennello in questa circostanza. Ovvero, per la proprietà commutativa cambiando gli addendi non cambia il risultato. Ebbene, cambiando i dodici del roster spagnolo non è cambiato il risultato, perché la nazionale iberica si è ritrovata ad alzare il trofeo continentale pur con sette esordienti, tra cui quel Lorenzo Brown naturalizzato in una settimana e voluto fortemente dallo stesso Scariolo proprio per mettere una toppa nel reparto dove avvertiva una carenza. Burocrazia a parte, la scelta che pur aveva fatto storcere il naso ad un senatore come Rudy Fernandez si è poi rivelata assolutamente decisiva. E quindi siamo qui a celebrare l’ennesimo trionfo della Spagna, che dal 2009 in poi sotto la guida del tecnico bresciano ha collezionato quattro ori europei (Polonia 2009, Lituania 2011, Francia 2015 e Germania 2022), un bronzo europeo (Turchia 2017), un oro mondiale (Cina 2019), un bronzo olimpico (Rio de Janeiro 2016) ed un argento olimpico (Londra 2012). Arrivati a questo punto, con Juancho e Willy Hernangomez rispettivamente di 26 e 28 anni, che da questa competizione hanno definitivamente ricevuto le chiavi della squadra in mano; uno Xabi Lopez-Arostegui di 25 anni che ha visto crescere il suo impiego e il suo ruolo; un Usman Garuba di 20 anni capace di giocare non solo col fisico ma anche con tecnica e letture, in attacco e in difesa; e poi con i vari Dario Brizuela (27 anni) sempre utile, Jaime Pradilla (21) e Jaime Fernandez (29) quasi sempre partiti in quintetto così come Joel Parra (22) che sta studiando come i fratelli Hernangomez quando c’erano ancora i fratelli Pau e Marc Gasol, questa nazionale può soltanto aprire un nuovo ciclo con una nuova generazione di campioni. Ma è una cosa normale, perché se lo sport ci insegna una cosa in particolare, è che il tempo passa per tutti. Bisogna saperlo accettare e guardare al futuro con rinnovata fiducia.

La seconda lezione è di natura prettamente tattica, perché sempre l’allenatore bresciano è stato capace di mettere dei granelli di sabbia nell’attacco perfetto della Germania con quella incredibile difesa a zona mista, ormai una rarità vederla applicata su di un parquet. Una ‘box and one’ con Diaz, sempre quello richiamato all’ultimo proprio come il nostro Amedeo Tessitori, che si è appiccicato a Schroder togliendolo dalla partita, facendolo diventare innocuo e a tratti addirittura facendolo innervosire. Significa proprio questo conoscere la propria squadra e sfruttarne le potenzialità, così come conoscere gli avversari e bloccarne le migliori qualità. Poi è logico che se quel Diaz si tuffa a terra sbucciandosi le ginocchia per recuperare il pallone a 2’ dalla fine della finale, e poi chiude i conti della stessa partita a poco più di un giro d’orologio dalla fine con una tripla che non è proprio la sua caratteristica principale, allora sei l’uomo del destino. Che si è trovato al posto giusto al momento giusto.

C’è anche da dire che la Spagna è stata capace di crescere partita dopo partita, perché ad inizio Eurobasket ha dimostrato di avere qualche fragilità. Ma è stata in grado di saper uscire dalle difficoltà come un gruppo unito. Le ‘furie rosse’ hanno vinto il proprio girone battendo nell’ultimo incontro la Turchia di misura (72-69) dopo essere stati battuti addirittura dal Belgio (83-73). Trovando la giusta quadra strada facendo, si sono sbarazzati prima della Lituania (102-94) agli ottavi e poi della Finlandia (100-90) di un monumentale Markkanen ai quarti. In semifinale, come già detto, è arrivata la vittoria in rimonta contro la Germania, capovolgendo le sorti di una partita che sembrava quasi compromessa (96-91). E poi naturalmente c’è stata la vittoria in finale contro la Francia (88-76), dove l’insieme ha fatto nuovamente la differenza. I numeri spesso, nella pallacanestro, non dicono tutto ma fotografano abbastanza bene la situazione. E allora basta dire che gli spagnoli hanno costretto i transalpini ad un 9/23 da tre con tiri spesso e volentieri contestati bene, e a perdere 19 palloni che sono stati prontamente convertiti in 33 punti. Un’enormità che però ci permettono di ritornare alla disamina di Bianchini con la quale abbiamo esordito. La Spagna è stata capace di adeguarsi all’avversario, al contesto, alle situazioni, e poi la forza del gruppo e soprattutto quella classe operaia che ha giocato anche scampoli di garbage time assolutamente non paragonabile, ad esempio, al Theo Maledon che gioca in Nba o all’Amath M’Baye fresco di firma con i campioni d’Eurolega dell’Efes, hanno contribuito a modo loro al resto.

Resta il fatto poi che una miglior finale dell’Eurobasket con a sfidarsi Spagna e Francia, forse, non la si poteva chiedere. E poco importa se tutti si aspettavano la Serbia di Nikola Jokic, la Slovenia di Luka Doncic o la Grecia di Giannis Antetokounmpo. La pallacanestro è e resta uno sport di squadra, nonostante tutti vorremmo vedere le cosiddette ‘stelle’ competere per la vittoria di un trofeo. Di fronte per la finalissima dell’Europeo si sono ritrovati i campioni del mondo ispanici ed i vicecampioni olimpici transalpini, a sottolineare che di meglio davvero non si poteva chiedere. La sostanza delle cose sta tutta lì. È il gruppo, la squadra, il sapersi dividere responsabilità e competenze che fa la differenza, e non il singolo, l’accentratore, colui che attira su di sé tutto ciò che c’è da poter attirare sul parquet che ti porta al successo.

Ed anche in questo, ancora una volta, Sergio Scariolo c’ha visto giusto. Perché tornando al simbolo di questa vittoria, ovvero il 28enne Alberto Diaz da Malaga, 188 cm che sembravano però molti di più sul rettangolo di gioco di Berlino, quando si è dovuto decidere chi avrebbe sostituito Llull, tutto o quasi faceva credere che sarebbe stato il baby prodigio del Real Madrid Juan Nunez. E invece nessuna decisione è stata migliore. Dopotutto all’indomani dell’infortunio del veterano blancos, proprio Scariolo scriveva sul suo profilo twitter che “continuiamo a lavorare, competere e migliorare. La familia non si è mai arresa, e di certo non lo farà adesso”. ‘La familia’, appunto, non la squadra, la nazionale, la selezione, ma la famiglia. Ed è proprio così che la Spagna ha affrontato questo Europeo, come una famiglia pronta a sudare, a correre, a lottare, a sacrificarsi insieme, nessuno escluso. Tutti a remare nella stessa direzione, con un unico obiettivo: vincere. Che poi era l’obiettivo di tutti, ma solo i più forti riescono a raggiungerlo. E non è detto che questi abbiamo il miglior giocatore in squadra.


*per la rivista Basket Magazine

mercoledì 21 settembre 2022

Eurobasket, il pagellone dell'Italia

L’Italia ha chiuso Eurobasket 2022 ancora una volta con un pugno di mosche in mano.  E’ brutto dirlo, a maggior ragione dopo i tanti meriti e complimenti ricevuti per il doppio confronto contro Serbia e Francia. Ma purtroppo il risultato è sempre quello, come un anno fa quando proprio contro i francesi ci siamo giocati fino ad un minuto dalla fine la semifinale olimpica di Tokyo 2020. Proprio come all’Europeo 2015 quando contro la Lituania abbiamo avuto il possesso per accedere alla semifinale, prima di perdere al supplementare. Gira e rigira, la situazione è sempre la stessa, una Nazionale che riesce anche ad appassionare, ma che alla fine non riesce a centrare un risultato importante da tempo. Qualcuno potrà dire: ma come, e il preolimpico vinto lo scorso anno? Certo, nessuno si dimentica dell’impresa di Belgrado, ma non è stata di certo una medaglia da appendersi al collo.

L’Italia del ct Gianmarco Pozzecco non ha giocato un buon girone, e non solo per la sconfitta sanguinolenta contro l’Ucraina. Il gioco non è mai stato continuo, a tratti ha latitato, eppure ci si poteva aspettare di tutto. Un po’ come contro la Grecia dove ad un black out che poteva costare caro ha risposto con una reazione d’impeto, di voglia, di aggressività andando ad un passo da un’altra impresa, che avrebbe cambiato le sorti del piazzamento per gli ottavi di finale ma che proprio come a Belgrado non avrebbe consegnato nessuna medaglia da appendersi al collo. Perché poi, vuoi o non vuoi, sono i risultati quelli che contano, e purtroppo per l’Italbasket questi latitano da anni ormai. Ma quello che si è visto nelle due gare di Berlino è parecchio interessante. Dunque, aspettiamo prima di bollare tutto e tutti come già in parecchi stanno facendo.

Foto credit: pagina facebook Italbasket

Simone Fontecchio 8,5: tutti lo indicheranno per i liberi sbagliati o l’appoggio che ci avrebbero potuto garantire la vittoria contro la Francia e la conseguente prosecuzione del cammino, ma è da un anno abbondante che l’ex Virtus ed Olimpia è l’Italia. Ha raggiunto un grado di maturazione tale che non ha paura di prendersi responsabilità, ed è anche per questo che gli Utah Jazz l’hanno portato dall’altra parte dell’oceano. Poche forzature, silente aspetta il momento giusto per colpire, e se non segna si rende utile con un assist o una buona difesa. E’ ancora incredibile da spiegare la parabola che ha avuto in due anni giocati all’estero.

Nicolò Melli 8: l’uomo che è stato capace prima di fermare Nikola Jokic, e poi Rudy Gobert. Gli è entrato sotto pelle ed ha realizzato due clinic difensivi che andrebbero mostrati ad ogni settore giovanile. Forse il giocatore meno sostituibile di chiunque altro in questa Nazionale, e quello che sa rispondere ‘presente’ meglio di chiunque altro. Perché se c’è da sacrificarsi e difendere, lui c’è. Perché se c’è da essere aggressivi ed attaccare, lui c’è. Perché se c’è bisogno di segnare un tiro pesante, lui c’è.

Gigi Datome 7: l’esperienza fatta persona. Per via del fisico e dell’età non gli si poteva chiedere di essere continuo per tutto l’arco della singola partita, e questo Pozzecco lo sapeva benissimo dopo lo scudetto vinto insieme appena pochi mesi fa. Ma il capitano è sempre il capitano, il fuoriclasse che segna quando gli altri non ci riescono, per un motivo o un altro. E poi quelle giocate di pura astuzia, come i rimbalzi scippati dalle mani degli avversari, o gli sfondamenti subiti ad interrompere i contropiede.

Marco Spissu 7: se c’è un giocatore che è letteralmente cambiato tra Milano e Berlino, questo è senz’altro lui. Nel girone si è spesso limitato a svolgere il compitino, quasi a non volersi prendere responsabilità. Poi contro la Serbia prima e la Francia poi ha liberato il folle che era in lui, assomigliando per caratteristiche tanto fisiche quanto caratteriali proprio al suo allenatore.

Pippo Ricci 6,5: di una utilità pazzesca, che non è certamente esule da errori, ma che s’impegna il doppio per rimediare. Senza paura si è preso tiri importanti che ha anche mandato a segno come fosse lì per fare solo quello. Ha battagliato, si è dimenato, ed ha sempre meritato lo spazio che gli è stato concesso.

Alessandro Pajola 6,5: il suo apporto alla fine è stato decisivo, perché se c’è qualcuno che può incidere fattivamente per le sorti di una partita pur senza segnare nemmeno un punto, questo è proprio lui. Quando si tratta di dover difendere, di dover sudare la maglia, non ha eguali, ed è proprio per questo che si è guadagnato lo spazio dopo aver iniziato in fondo alle rotazioni, lasciato nel dimenticatoio. Quando Pozzecco ha dovuto cercare e trovare nuove energie, non se l’è fatto dire due volte.

Achille Polonara 6,5: giocatore che forse appare meno di quanto realmente faccia, anche perché vive di troppi alti e bassi nella stessa partita. Quando riesce ad incidere offensivamente si carica anche difensivamente. Ma da lui ci si può aspettare di tutto, perché con quelle capacità e quel fisico può tutto. La tripla folle contro la Serbia è la sua personale fotografia di questo Eurobasket.

Stefano Tonut 6: la più grande incognita dell’avventura azzurra, perché per i mezzi che possiede ci si aspettava sicuramente di più in quanto ad apporto offensivo. Anche perché è stato uno dei pilastri di questa Nazionale per minutaggio. Però se non imbeccato, è riuscito davvero pochissime volte ad incidere.

Nico Mannion 6: una sufficienza per incoraggiarlo, perché è il futuro dell’Italia e perché evidentemente veniva da un anno poco felice. Ha però dimostrato di non perdere mai la fiducia in sé stesso, di provare ad essere aggressivo quando attaccava il ferro con continuità, e d’impegnarsi anche in difesa (memorabile la rubata per il vantaggio contro la Francia) che resta il suo tallone d’Achille.

Paul Biligha 6: alzi la mano chi non lo vorrebbe sempre nella sua squadra. Se c’è bisogno di aggressività, energia, durezza difensiva, non si può non ricorrere al gladiatore di Perugia. Non ha mai sfigurato quando chiamato in causa, per quelle che ovviamente sono le sue caratteristiche.

Tommaso Baldasso 6: aggregato al gruppo ha portato il suo apporto negli scampoli di minuti che gli sono stati concessi. Sempre pronto alla giocata, ma per lui niente più.

Amedeo Tessitori 6: ancor meno spazio per lui che è stato richiamato giusto in tempo per prendere il posto dell’infortunato Gallinari. La sua una sufficienza più per dirgli grazie comunque.

Gianmarco Pozzecco 6,5: la sua principale qualità è quella di coinvolgere tutti. Lo sapevamo, lo faceva da giocatore, lo fa adesso da allenatore. Parla con il suo staff continuamente e spesso ha ceduto la parola proprio ai collaboratori. Dopo un girone così così, a Berlino si è vista una squadra per nulla frenetica, anche quando c’era da inseguire, ma soprattutto capace di entrare sotto pelle agli avversari in difesa. Ecco, queste sono due cose interessanti che si spera possano essere approfondite in futuro. Il Poz però resta il Poz, e dunque l’istinto prevarrà sempre e comunque.

Giovanni Bocciero

lunedì 29 agosto 2022

Eurobasket dietro l'angolo, le avversarie dell'Italia

Il girone C dell'Eurobasket 2022 è quello che riguarda l'Italbasket, perché si giocherà al Mediolanum Forum di Milano, impianto da oltre 12 mila posti che è stato bellissimo vedere strapieno in occasione delle ultime finali scudetto tra l’Olimpia e la Virtus. L’Italia se la dovrà vedere con Grecia, Estonia, Ucraina, Gran Bretagna e Croazia.

L’Ucraina dovrebbe avere i suoi migliori interpreti in Artem Pustovyi, Sviatoslav Mykhailiuk e Alex Len, ma non dovrebbero di certo far tremare l’Italia del ct Pozzecco, così come la giovane Estonia, che potrà contare sui veterani Sander Vene e Kristjan Kitsing intorno ai quali agiranno i vari Maik Kotsar, Henri Drell e Kristian Kullamae. La Gran Bretagna dell'ex Sassari Gabriel Olaseni dovrebbe essere la squadra cuscinetto di questo raggruppamento, e il fatto che il miglior giocatore Myles Hesson gioca in Giappone la dice piuttosto lunga.

Inutile dire che tutti gli appassionati aspettano la sfida che l’Italia avrà con la Grecia di Giannis Antetokounmpo. La stella Nba guiderà la squadra del ct Dimitrios Itoudis, che conterà su Nick Calathes, Tyler Dorsey, Georgios Papagiannis, Ioannis Papapetrou e Kostas Sloukas. La terza incomodo tra azzurri ed ellenici per il possibile primo posto in classifica sarà la Croazia, altra nazionale che ha pagato a caro prezzo le finestre Fiba venendo eliminata dalle qualificazioni alla World Cup 2023. Proprio per questo, forse, i croati del ct Damir Mulaomerovic cercheranno di rifarsi all’Europeo potendo contare sul trio composto da Bojan Bogdanovic, Ivica Zubac e Dario Saric, senza dimenticare Kruno Simon e Mario Hezonja. Ancora una ferita aperta la grande delusione che la Croazia ci ha regalato nel preolimpico di Torino del 2016. Dunque, nessuna distrazione e concentrazione per evitare qualsiasi passo falso.

Simone Fontecchio, foto credit Italbasket


venerdì 10 giugno 2022

Affari di famiglia. Da Luigi a Francesco Rapini, 80 anni di grande basket

La Rapini Dynasty: Il nonno, cinque scudetti con le V nere, prima figura significativa di 'Basket city', ha lanciato il minibasket e allenato a lungo a Rimini

Da Luigi a Francesco Rapini, 80 anni di grande basket

Il nipote ha già vinto tre scudetti di categoria con la Stella Azzurra. In mezzo Andrea, grande tiratore, giocatore, coach e presidente. In panchina con la Lazio, cinque promozioni in sette anni



di Giovanni Bocciero*



DAGLI SCUDETTI del dopoguerra di nonno Luigi, pivot della gloriosa Virtus Bologna, a quelli giovanili del nipote Francesco, guardia dell’altrettanto blasonata Stella Azzurra Roma. Nel mezzo c’è Andrea, figlio di Luigi e papà di Francesco, che le sue soddisfazioni se l’è comunque tolte lanciando il pallone nel cesto. Stiamo parlando della famiglia Rapini, terza ed ultima dinastia della pallacanestro italiana che può vantare la peculiarità di avere tre generazioni che hanno giocato e giocano ad alto livello, dopo quelle Pomilio/Fontecchio e Busca (leggi qui). A differenza di queste due, delle cui storie abbiamo trattato nei numeri precedenti della rivista, la famiglia Rapini ha davvero un amore sconfinato per la pallacanestro, avendola non solo giocata ma anche ‘insegnata’.

«Mio padre Luigi ha portato la pallacanestro a Bologna sia da giocatore che come istruttore - ha commentato il figlio Andrea -, perché è stato precursore nel far praticare il minibasket e a farne svolgere il primo trofeo. E poi è stato il fautore del gesto tecnico che tutti oggi conoscono come il gancio». Luigi Rapini, mancato purtroppo nel 2013 all’età di 89 anni, ha vinto cinque scudetti dal 1946 al 1949 e del 1954/55 con le ‘V nere’, collezionando anche 33 presenze (e 134 punti) in maglia azzurra quando la nazionale centellinava gli impegni. È stato il primo grande pivot italiano, ma soprattutto un autentico pioniere della pallacanestro contribuendo in maniera significativa alla leggenda di Bologna quale ‘Basket city’. «L’amore per il basket l’ha tramandato in famiglia e rimane in tutti noi. Era innamorato della pallacanestro. Quando ha smesso di giocare lavorava in banca, e nonostante ciò - ha continuato Andrea - andava cinque giorni alla settimana a Rimini per allenare. E parlo dei tempi in cui non esisteva il professionismo».

Come il papà Luigi, anche Andrea ha mosso i primi passi nella Virtus Bologna, «che poi mi ha prestato alla società satellite del Castiglione dove ho giocato prima in serie C e poi in serie B. Successivamente mi sono trasferito a Vigna di Valle per fare il militare nelle Forze Armate. Poi mi ha acquistato l’Italcable che era la terza formazione di Roma. Siccome però all’epoca c’era la regola che una stessa città non poteva avere tre squadre in massima serie, ci allenavamo nella capitale ma giocavamo a Perugia. Poi anche per questioni legate alla famiglia ed al lavoro ho deciso di scendere in serie B, categoria che aveva ancora il girone unico. Una volta smesso ho continuato comunque a giocare a livello dilettantistico con una squadra di Promozione vicino ad Anguillara, dove abitavo. Dopodiché l’allora presidente della Lazio, Federico Nizza, dopo che la squadra era retrocessa in Promozione mi coinvolse nel progetto di rilancio del club al quale sono stato molto contento di contribuire».

Infatti, come Luigi anche Andrea, una volta appese le scarpette al chiodo, ha deciso di intraprendere la carriera di allenatore prima e di dirigente poi per non lasciare il mondo del basket. «Il mio percorso nella pallacanestro ha seguito lo scandire dell’età, per quelle che possono essere le fasi di una persona che vive questo sport. Ho iniziato da giocatore, poi giocatore-allenatore, poi solo allenatore e infine presidente. Diciamo che le più grandi soddisfazioni me le sono tolte da allenatore della Lazio, raccogliendo con un po’ di fortuna e un po’ di strategia cinque promozioni in sette anni dalla Promozione alla serie B2. Una cavalcata che mi rimarrà per sempre. Da giocatore ho ottenuto altre soddisfazioni, ma sono legate a quelle che potevano essere le caratteristiche e le qualità o meno che si possedevano». Andrea era un realizzatore, capace di mettere a segno anche 51 punti in uno spareggio per la serie B. E all’epoca il tiro da tre punti non esisteva ancora.

«Sono nato quando mio padre aveva già smesso. Però pur non vedendolo giocare ho vissuto tanto la pallacanestro con lui perché da ragazzino mi portava al vecchio campo all’aperto della Virtus. Quando poi ero adolescente, andavo spesso a fare i ritiri con la squadra di Rimini. Quindi anche se ero piccolo l’ho vissuto soprattutto come allenatore. Chiaramente mi ha dato da un punto di vista tecnico un sacco di nozioni, e in particolare con la vecchia metodologia di una volta che voleva dire ripetere uno stesso esercizio migliaia di volte finché non lo facevi diventare tuo. Dal punto di vista tattico invece, mi ha aiutato quando ho fatto l’allenatore, perché ci siamo sempre molto confrontati e gli devo dare atto che su di me ha fatto proprio un gran bel lavoro. Lo considero ancora oggi il mio allenatore privilegiato».

LA PASSIONE per il basket non ha saltato una generazione in casa Rapini. «Ho quattro figli - ha proseguito Andrea -. Il primo è Alessandro, 37 anni, che ha giocato a basket ma per questioni di studio ha smesso. La seconda è Alessia, 34 anni, alla quale la pallacanestro non è mai interessata granché. Il terzo è Lorenzo, 21 anni, che gioca in Promozione ma a calcio. Ha cambiato sport ma non mi dispiace perché non ho mai influenzato le loro scelte. L’ultimo è Francesco, classe 2004, che sta ottenendo dei discreti risultati, ma non lo devo dire io che sono il papà».

Francesco e Andrea Rapini

Impegnato con la Stella Azzurra tra under 19 Eccellenza e serie C Gold, Francesco ha già vinto tre campionati giovanili nazionali. «Con Francesco mi confronto molto, soprattutto cerco di fargli capire che deve sempre seguire il lavoro che hanno programmato i suoi allenatori. Poi è evidente che quando c’è l’opportunità un consiglio glielo d’ho volentieri. Ma la realtà della Stella Azzurra prevede che sin da giovani i ragazzi si comportino come dei professionisti, con diversi allenamenti nell’arco della stessa giornata, tornei all’estero, tutta una serie di attività psicologiche che riguardano l’attenzione e la velocità di reazione a determinati stimoli. Per cui, gli sto al fianco ma senza influire sul lavoro che fa con il suo club. Ed è giusto così perché altrimenti si ritroverebbe ad avere dei linguaggi completamente differenti. D’estate poi andiamo spesso a fare due tiri al campetto e lo aiuto magari nel migliorare al tiro o in altri particolari. Da questo punto di vista - ha raccontato Andrea Rapini - se io ho avuto mio padre che è stato il mio allenatore privilegiato, io sono per mio figlio più un allenatore di supporto».

Ma c’è qualcosa che vi accomuna tecnicamente? «Vedo una grande somiglianza tra me e mio figlio da un punto di vista di visione della pallacanestro, nel senso di riuscire a capire cosa sta accadendo in campo. E poi nel tiro, anche se sono stato un grande tiratore ma la difesa non era il mio massimo. Mio padre invece era uno che ha fatto del basket anche un modo per fare esperienza. Mi spiego, lui guardava i movimenti dei giocatori americani, per quello che si poteva vedere all’epoca, e si metteva sul campo da solo a provare. Questo lo portava ad essere un grande competente in materia. Io però l’ho sempre ammirato nel ruolo di allenatore, perché al di là del suo stare in panchina con quell’aplomb inglese al contrario degli esagitati che ci sono oggi, riusciva sempre a fare l’intervento giusto al momento giusto. Vuoi una scelta di una sostituzione o il cambio di una difesa. Era uno che sentiva la pallacanestro».

Le maggiori differenze sono soprattutto fisiche, segno di una pallacanestro che è man mano cambiata, che si è evoluta. «Se io rispetto a mio padre sembravo un superman, i giocatori di oggi sono dei superman all’ennesima potenza. Fisicamente sono delle ‘bestie’, come si usa dire nel gergo del basket. Hanno dei fisici spaventosi che gli permettono di correre e saltare, arrivando a schiacciare con due passi e con entrambe le mani. Noi invece sotto questo aspetto facevamo poco lavoro e forse anche male. Ma questo lo dico oggi perché vedo come lavorano i ragazzi, ma ai miei tempi anche quel poco che facevamo mi sembrava tanto. Per fare un esempio, mio padre i pesi non sapeva neanche cosa fossero. Per me invece il lavoro fisico era fare degli squat con 70-80 chili. Oggi invece hanno dei programmi in cui fanno training fisico tutti i giorni più l’allenamento di un’ora e mezza. Diciamo che questo però ha influito su un minor tasso tecnico».

DAL CAMPO alla panchina alla scrivania, Andrea Rapini ha vissuto la pallacanestro a 360° avendo ricoperto addirittura il ruolo di presidente della Lazio. Una vita che oggi gli permette di fare un’accurata valutazione dei diversi punti di vista. «L’argomento non è di facile lettura e non è neppure semplice riassumerlo perché le tematiche sono completamente diverse. Quando sei giocatore devi pensare a quello che è il risultato immediato, dell’annata, forse più a livello personale che di squadra. Da dirigente invece, bisogna avere la grande capacità di vedere il momento e nel contempo cercare di capire cosa bisogna fare per il domani. Poi è necessario sapere con che mansioni e competenze si fa il dirigente o il presidente, perché è importante anche il discorso empatico, ovvero le capacità di influire nel formare il tanto decantato gruppo. Poi sono importanti i rapporti per poter avere i mezzi economici e finanziari per poter portare la società sempre avanti e sempre meglio nel suo percorso di crescita. La visione dell’allenatore forse è quella più complessa, perché deve ottenere dei risultati, avere uno sguardo al futuro per capire quale giocatore gli possa essere utile domani, e nel contempo deve riuscire a non scontentare nessuno. Questo fa sì che debba avere con i giocatori un rapporto logicamente tecnico-tattico, ma anche un legame come fosse un padre. Credo che questo rapporto tra giocatore e allenatore non finisce quando termina l’allenamento, ma nel momento in cui il giocatore non ha più bisogno di lui anche da un punto di vista psicologico. La grossa difficoltà dei tre ruoli è quello di non inficiare la posizione dell’altro. Che il presidente vada a dire all’allenatore cosa bisogna fare credo che sia la cosa peggiore che possa esserci».

Oggi Andrea non ricopre ruoli ufficiali nella pallacanestro, e per questo si limita a seguire il figlio nella sua ancor giovane carriera. Eppure, la sua esperienza cestistica associata alla sua attività lavorativa gli permettono comunque di trovare una scusante per poter fare scuola. «Mi è capitato di fare dei discorsi motivazionali ai ragazzi, perché c’è un parallelo con la mia attività lavorativa. Avendo fatto selezioni, reclutamento e formazione per conto di Banca Mediolanum, il discorso della motivazione per raggiungere un obiettivo è uguale per qualsiasi ambito, tanto lavorativo quanto sportivo. Quindi ho tenuto molto volentieri queste lezioni. Resta comunque un modo per rimanere nell’ambito della pallacanestro, e chissà, magari nella mia seconda vita può darsi anche che ricominci ad allenare. In questo momento però, mi diletto a capire le grosse differenze che ci sono - ha concluso Andrea Rapini - soprattutto dal punto di vista della preparazione fisica da quello che eravamo noi e quello che sono oggi gli atleti».


Italbasket, la lunga estate già caldissima

Italbasket, la lunga estate già caldissima



di Giovanni Bocciero*



DALLE DIFFICOLTÀ MOSTRATE negli ultimi impegni al commissario tecnico pro tempore, passando per i risvolti della guerra russo-ucraina, le parole d’amore di Danilo Gallinari, i giovani talenti del futuro e le indicazioni arrivate da coppe e campionato. Tutto questo si fonderà nell’estate azzurra dell’Italbasket, alle prese prima con le finestre di qualificazione al Mondiale 2023, e poi con l’Eurobasket 2022 di scena con il girone preliminare al Forum di Milano.

L’ESTATE AZZURRA. Ma andiamo con ordine e diamo innanzitutto uno sguardo al calendario della nazionale azzurra, che si radunerà per la prima volta il 20 giugno a Trieste. Lì dove tira sempre la bora gli uomini selezionati dal ct Meo Sacchetti ospiteranno per un’amichevole di prestigio la Slovenia il 25 giugno all’Allianz Dome. Un test match che servirà per rodare la squadra in vista dell’ultimo impegno, dopo l’esclusione finalmente decisa dalla Fiba di Russia e Bielorussia dalla prima fase di qualificazione alla World Cup 2023 influenzata dalla guerra in Ucraina. La Federazione italiana col sostegno del Coni, aveva già fatto sapere che non sarebbe scesa in campo il 1° luglio contro la nazionale russa. Per questo, dopo la preparazione a Trieste gli azzurri voleranno direttamente in Olanda per affrontare la partita decisiva per la qualificazione contro la nazionale orange guidata dal tecnico Maurizio Buscaglia in programma il 4 luglio ad Almere. La classifica attuale vede Italia e Islanda, entrambe a 4 punti, e l’Olanda fanalino di coda con i suoi 0 punti: battere gli orange significherebbe prendersi la testa del girone ed entrare nella seconda fase con 6 punti già all’attivo. A fine agosto, infatti, si giocheranno le prime due gare della seconda fase di qualificazione al Mondiale 2023. Ricordiamo che le squadre porteranno con sé i punti della prima fase e andranno ad incrociarsi con le formazioni qualificate del raggruppamento che comprende Spagna, Georgia, Ucraina e Macedonia del Nord.
Ancora impossibile conoscere le prime avversarie, si sanno però le date e le location, con il primo impegno in trasferta il 24 agosto, ed il secondo a Brescia il 27 agosto. Per queste due partite, dovremmo già vedere le idee chiare sulle scelte del ct per quel che riguarda i giocatori che comporranno la nazionale, che dal 28 agosto si trasferirà a Milano. Qui potrebbero giusto esserci gli ultimi tagli del roster, che inizierà a lavorare per l’esordio all’Eurobasket 2022. Dal 2 all’8 settembre l’Italia affronterà nell’ordine Estonia, Grecia, Ucraina, Croazia e Gran Bretagna alla ricerca del passaggio del turno per le fasi finali che saranno disputate a Berlino.


ALLENATORE PRO TEMPORE. L’estate azzurra vedrà forse per l’ultima volta sedere il ct Sacchetti sulla panchina dell’Italia. Il presidente federale Gianni Petrucci ha forse rilasciato una battuta poco piacevole nei suoi confronti, con quel siamo tutti pro tempore riferito alla permanenza con conseguente rinnovo dell’allenatore. Ciò non esclude che il connubio possa continuare, come successo proprio dodici mesi fa dopo il ritorno dell’Italia all’Olimpiade. Ma se in quel caso il risultato sportivo ha avuto un peso specifico fondamentale, questa volta potrebbe non essere importante in tal senso, ma conteranno più i rapporti e le vedute comuni. Un bandolo della matassa per nulla semplice da sciogliere insomma.

L’AUTOCANDIDATURA DEL GALLO. Se c’è qualcuno convinto di esserci, in particolar modo all’Eurobasket, questo è Gallinari. L’ala impegnata in Nba ha avuto parole al miele per la nazionale e sembra già molto carico per la competizione continentale che non solo ritornerà con la fase preliminare in Italia dopo 31 anni dalla sua ultima edizione, ma soprattutto sarà disputata nella sua Milano. Lui vuole esserci, bisognerà capire se ci sarà sin dalle gare di qualificazione al Mondiale 2023 di inizio luglio. Non solo lui, magari sperano di poter riallacciare i legami con l’azzurro anche Marco Belinelli e Gigi Datome, che l’anno scorso decisero di non indossare la maglia della nazionale. Una scelta che fece infuriare più il presidente Petrucci che l’allenatore Sacchetti, per la verità. Se oggi ci sono delle possibilità di rivederli a giocare con l’Italia, forse, però, lo sanno soltanto loro.

LE FUTURE PROMESSE. Alessandro Pajola e Nico Mannion sono già parte integrante della nazionale, ma rappresentano ancora delle future promesse perché possono e devono migliorare ulteriormente. Si tratta di maturare e diventare sempre più pilastri della squadra. Eppure se Pajola è stato nominato miglior difensore della serie A, un premio che non stupisce più di tanto. Mannion con la piccola mini rivoluzione a stagione in corso della Virtus Bologna, che ha ingaggiato tra gli altri l’ex azzurro Daniel Hackett, ha perso posto, minuti e fiducia. Si tratta di un giocatore forse da recuperare prima mentalmente che fisicamente, visto che quest’anno tra infortuni e covid non è stato neanche semplice per lui.

Ma lo stiamo dicendo da tempo ormai, soprattutto stiamo dedicando spazio sulla rivista a quelle che potrebbero essere le future promesse dell’Italia. Parliamo dei prospetti della cosiddetta ‘generazione z’, come Matteo Spagnolo e Gabriele Procida che appena terminato il campionato sono volati negli Stati Uniti dove hanno partecipato alla Draft combine di Chicago. O ancora Giordano Bortolani, che ha ricevuto un riconoscimento non indifferente quale miglior giovane della Basketball Champions League. Questi sono tutti in lizza per poter aspirare a conquistare la maglia azzurra per le qualificazioni al Mondiale 2023 prima, ma anche all’Eurobasket poi. Tra questi bisognerà invece scartare a priori il tanto atteso Paolo Banchero, che dedicherà l’intera estate a prepararsi per la stagione da rookie in Nba.

LA NAZIONALE CHE VERRÀ. In vista dell’Eurobasket la nazionale ritroverà sicuramente i grandi protagonisti dell’estate scorsa, come Niccolò Melli, Simone Fontecchio, Achille Polonara, Pippo Ricci. Ma successivamente si ripresenterà il problema delle convocazioni dei giocatori impegnati in Eurolega. E con la ‘promozione’ della Virtus Bologna che ha meritatamente vinto l’Eurocup la questione non potrà che acuirsi ancora di più. Non volendo comunque guardare il bicchiere mezzo vuoto, è importante come sottolineare che le indicazioni provenienti dal nostro campionato potranno diventare ancora più importanti. Ad esempio nella seconda finestra delle qualificazioni al Mondiale 2023 si è visto che Amedeo Della Valle si è conquistato con merito la convocazione. Con Brescia si è ritrovato, e non è un caso che sia stato votato quale Mvp della serie A. Sul futuro di quella che dovrà essere la squadra italiana lavorerà anche Gianmarco Pozzecco, che in estate sarà alla guida della nazionale under 23 sperimentale. Al via con il raduno di Roseto degli Abruzzi dal 26 giugno, la compagine parteciperà al torneo Global Jam di Toronto, dal 5 al 10 luglio, nel quale affronterà i pari età delle selezioni di Canada, Stati Uniti e Brasile. Un bel banco di prova dove mettere alla prova non solo i giocatori in campo, ma anche lo stesso allenatore. Perché se ci dovesse essere un dopo Sacchetti, anche Pozzecco sembrerebbe accreditato per prenderne il posto.


venerdì 20 maggio 2022

Serie A2. Giuri, bilancio di una vita da giocatore tranquillo

Curiosa e sincera confessione di un playmaker che,
giunto a 33 anni, insegue ancora traguardi importanti

Giuri, bilancio di una vita da giocatore tranquillo

A Udine ha vinto un nuovo trofeo dopo una carriera in giro per l'Italia
con due tappe particolari: nella sua Brindisi e a Caserta


di Giovanni Bocciero*


Con i suoi 33 anni ed un palmares che ha appena rimpinguato, Marco Giuri è ancora un giocatore che fa la differenza in A2 grazie alla sua leadership ed esperienza. Alla seconda stagione tra le fila di Udine, dopo aver perso la finale per la promozione contro Napoli l’estate scorsa, il veterano play si è calato in un nuovo ruolo. «Certamente l’età avanza, ma quando si fa parte di una squadra competitiva, lunga, forte, ognuno riesce ad esaltare le proprie caratteristiche. Quest’anno ho diminuito il minutaggio, cosa di cui sto beneficiando visto che l’anno scorso arrivavo a volte alla fine delle partite stanco e poco lucido. Grazie alle rotazioni ancora più lunghe - ha continuato Giuri - mi sto gestendo bene e a pieno, e stando in una squadra forte è un ruolo che ho accettato veramente di buon gusto». Emigrato sin da giovanissimo alla Virtus Siena, il girovagare in club che gli hanno permesso di fare la gavetta lo ha reso il giocatore che è oggi. «Ho giocato in B d’Eccellenza a 17-18 anni, poi ho iniziato a giocare in una LegaDue che presentava giocatori e squadre davvero molto forti che non avrebbero nulla da invidiare all’attuale serie A. Sono stati anni molto formativi soprattutto per il carattere. Quando giochi in squadre con tanti giocatori bravi e in alcuni casi affermati bisogna tirarlo fuori e farsi rispettare anche se si è giovani. Senza mancare di rispetto a nessuno ma con decisione, facendo capire che di te ci si può fidare. Questa è la cosa principale che mi sono portato dietro nella mia carriera, questa consapevolezza che con l’educazione ci si può far rispettare». Si parla ovviamente di campionati che «avevano un format diverso. Con il girone unico da 16 squadre, riconosciuto come campionato professionistico a tutti gli effetti, il livello era altissimo perché i giocatori che non trovavano collocazione in A1 scendevano di categoria e trovavano realtà forti dove mettersi in luce. Oggi ci sono più squadre, con società meno solide e meno conosciute cestisticamente - ha dichiarato il play -, e ciò fa scendere il livello medio».


Giuri ha indossato la maglia azzurra dell’under 20 insieme a Datome, Hackett, Aradori, giocatori che nonostante tutto per emergere hanno dovuto aspettare il loro momento, senza bruciare le tappe. «È un discorso molto complesso che prevede sostanzialmente due correnti di pensiero. C’è chi dice che i giovani non hanno opportunità, e c’è chi dice che non meritano un palcoscenico in età precoce. Io sono dell’idea che chi merita di giocare, e gioca bene, continua a giocare; chi non lo merita matura dopo. Se a 17 anni meriti di giocare è giusto che giochi anche a discapito di qualche compagno più grande d’età. Se però un allenatore reputa che un 16enne non sia maturo, è giusto che prenda le sue scelte. Io stesso a 18 anni non sono stato reputato adatto a terminare l’anno di A2 a Casale Monferrato e sono andato per metà stagione in B1 a Vigevano. A volte bisogna anche saper scendere di categoria per trovare la maturità giusta - ha osservato il play - affinché possa giocare ad un più alto livello. Adesso magari i giovani vedono la serie A come un punto fisso, un traguardo dal quale non si ritorna più indietro, e per me è sbagliato. Scendere di categoria non è una bocciatura, soprattutto a 18 anni, ma è un rimettersi in discussione cercando di far capire che maturando ancora un po’ si può aspirare ad alti livelli». Proprio tra le fila di Udine c’è un atleta che nelle ultime stagioni ha visto la sua parabola scendere rispetto a quello che era il suo futuro, come Federico Mussini, oggi in Friuli anche per rimettersi in gioco. «Federico è un ragazzo d’oro, che si fa ben volere da tutti. È disponibile e lavora tantissimo, soprattutto quest’anno che viene da un brutto infortunio al crociato e pian piano lavorando ogni giorno sin dall’estate ha recuperato alla grande. In prospettiva futura penso che possa tranquillamente ambire di ritornare a giocare in serie A, perché è un giocatore che uscendo dalla panchina può dare il suo contributo da playmaker di rottura, che cambia ritmo alla squadra. Sta facendo molto bene quest’anno con noi, entrando a gara in corso e portando una grossa mano sia in difesa che in attacco. Per il resto è la sua carriera che parla per sé, e credo che non bisogna aggiungere altro».

Da uomo del sud, brindisino doc, Giuri ha vinto tanto soprattutto al nord, con lo scudetto alla Reyer Venezia nel 2019 e le coppe Italia di A2 di Verona e dello scorso marzo con Udine. «È semplicemente una questione di opportunità e di realtà che mi si sono presentate lungo la mia carriera. Quando ci sono state squadre ben allestire e solide come Brindisi, ho avuto l’occasione di vincere al sud. Negli ultimi anni, ma fondamentalmente per quasi tutto il mio trascorso, ho giocato sempre al nord. Però è una questione di opportunità e non di provenienza geografica». Il riferimento del veterano play è ai successi del 2012, la doppietta campionato-coppa centrata proprio con la squadra della sua città. «Quello fu un anno particolare. Ad inizio stagione ero senza squadra e mi aggregai a Montegranaro per tenermi in forma. Finita la preparazione stavo per firmare con il club in A1, ma l’infortunio di Edgar Sosa che era il primo play della squadra fece saltare la cosa. Così ritornai a casa e mi stavo allenando da solo quando arrivò la chiamata di Brindisi di cui fui davvero felice. Da brindisino mi inserii subito nel gruppo nonostante arrivai a stagione in corso, ma pensare di vincere la coppa Italia a marzo e il campionato a giugno, pur consapevoli della forza del roster, è stata un’emozione unica. Vincere non è mai semplice in generale, farlo con la squadra della tua città è qualcosa di unico». Giuri ha giocato tanto al nord, eppure nel suo percorso ha militato in due club storici del sud dalle tifoserie calde come Brindisi e Caserta, dove ha esordito in serie A a 27 anni. «Il ricordo di Caserta è indelebile. Sono arrivato in una importante realtà già abbastanza grande e consapevole di dove mi trovassi. Magari se ci fossi arrivato da più giovane non avrei capito tante cose. Ho avuto da subito un ruolo importante nella squadra, e causa una serie di infortuni ho avuto modo di giocare davvero tanto negli anni di A1. Alla città sono particolarmente legato, e infatti ci sono ritornato anche in A2 perché non era più una questione di categoria. Quando si va più in là con gli anni vuoi stare anche bene in un posto - ha ricordato l’atleta -, e a Caserta sono stato benissimo per questo sono ritornato volentieri». Da uomo del sud anche il modo di giocare un po’ stona, perché Giuri non è focoso. Ma la domanda è presto risposta. «In campo sono tranquillo anche perché è il ruolo che mi dice di essere così. Essendo un play, essere focoso in campo per una squadra può essere sintomo di nervosismo. E se colui che deve gestire il pallone è nervoso penso sia un brutto segnale da dare alla squadra. Per quanto mi riguardo cerco di essere tranquillo e di giocare solo a pallacanestro».

Venendo alla stretta attualità, Udine e Cantù stanno dando vita ad un dualismo in questo campionato di A2. Due storiche piazze della nostra pallacanestro, i brianzoli hanno avuto ragione nei due match in regular season, ma i friulani si sono presi il primato del girone e soprattutto la coppa Italia disputata a Roseto. «Tra Udine e Cantù più che di dualismo parlerei di obiettivi in comune, ovviamente la promozione in serie A. Siamo due squadre che voglio salire di categoria e che ne hanno la possibilità. Vedremo se saremo brave entrambe o se ne sarà brava solo una a raggiungere lo scopo, ma tutte le partite in cui ci siamo affrontati sono state gare sentite perché sappiamo l’importanza degli impegni. Noi siamo stati bravi a vincere la partita fin qui più importante che è stata la finale di Coppa Italia, quindi siamo contenti di aver vinto solo quel confronto e di aver perso gli altri due in campionato». Importante l’apporto che stanno dando alla squadra friulana due giovani come Ethan Esposito e Michele Ebeling, entrambi classe ’99, che a suon di gomitate e sbracciate hanno l’ambizione di arrivare in serie A. «Sono convinto che loro possano far bene, e che possano avere una carriera anche a più alto livello. Sono ragazzi che ascoltano, e in questo preciso momento della pallacanestro avere giovani che ascoltano i compagni di squadra che sono più grandi e che hanno più esperienza, indipendentemente dal coach che è seguito da tutti i giocatori, non è una cosa affatto scontata. Ad inizio anno sono stati un po’ una scommessa del club. Hanno però avuto una maturazione graduale e sono cresciuti di pari passo con i progressi della squadra. Questo li ha portati ad essere due giocatori importanti perché ci danno atletismo, fisicità, e ci permettono di alternare i quintetti. Loro due mi hanno impressionato particolarmente - ha concluso Giuri - perché hanno avuto la capacità di giocare in una squadra forte e di ritagliarsi il proprio ruolo all’interno di un gruppo che è pronto a vincere il campionato».

Affari di famiglia. Da Vincenzo ad Emiliano, Busca vuol dire basket

Tre generazioni di cestisti: a Palestrina il nonno è stato uno dei pionieri. Il nipote Sean è alto due metri e ha nel tiro la dote migliore, Nicole - sorella di Sean - nel 2019 ha conquistato il tiolo di campione d'Italia under 14 

Da Vincenzo ad Emiliano, Busca vuol dire basket

Emiliano, per dieci anni simbolo della Virtus Roma: «Ho quattro figli:
tre giocano a basket, il quarto no, ma solo perché ha soltanto cinque anni...»


di Giovanni Bocciero*


Passione per la pallacanestro tramandata da padre in figlio a nipote. È la particolarità della famiglia Busca, che ha il basket nel proprio dna lungo tre generazioni: del resto, provate a pronunciare il cognome in… inglese. Tutto nasce a Palestrina con nonno Vincenzo, classe ’44, tra i primi in città a lanciare il pallone nel cesto nel 1962. Alla prima amichevole organizzata contro il Ponte Parioni ha segnato 22 dei 26 punti di squadra. La famiglia ha poi imboccato la via Casilina legando il proprio nome alla capitale.
«Sono stato tra i fondatori a Palestrina - ha esordito Vincenzo -, quando erano tempi pioneristici. Lo storico dirigente Luigi Stellani, pendolare che lavorava a Roma vicino al PalaTiziano, nel ‘60 ha visto le Olimpiadi. Rimasto folgorato da questo sport, ne ha parlato al circolo dove giocavamo solo a calcio. Nel frattempo, in città avevano costruito il campo all’aperto Barberini dove abbiamo iniziato a praticarlo a 15-16 anni. Imparate le regole, lo giocavamo un po’ a modo nostro, poi sono venuti allenatori di Roma e ci siamo affinati. Francamente all’inizio nemmeno mi piaceva, però facendo qualche tiro in maniera molto artigianale vedevo che la palla finiva spesso nel canestro. Ho pensato che dopotutto non fosse così difficile - ha rivelato il capostipite della famiglia Busca -, e partiti dalla Prima divisione siamo stati promossi fino alla serie B, paragonabile all’attuale A2». Vincenzo nella stagione 1972/73 ha realizzato 31 punti nello storico spareggio per la B con Avellino. «Avevo effettivamente la dote del marcatore, ero un tiratore abbastanza preciso. Ma non solo segnavo, ero un grande agonista perché a quei tempi si lottava. Ho smesso a 35 anni ed ha iniziato mio figlio Emiliano. Avendo una concessionaria non avevo tempo da dedicare al basket al di fuori di famiglia e lavoro. Ho fatto da sponsor per un paio di stagioni, un modo per non abbandonare il club della mia città del quale - ha continuato Vincenzo - ancora oggi, quando posso, vado a vedere le partite».

Se il secondogenito di Vincenzo Busca, Alessandro, è arrivato a giocare qualche torneo di C con Palestrina, il figlio maggiore Emiliano ha superato il papà affermandosi in serie A. «Sin da piccolo veniva a vedere le mie partite. È nato in un borsone da basket e si è innamorato da solo di questo sport. È stato l’esempio visivo che l’ha portato a giocare, tant’è che ha indossato il mio stesso numero 5. Quando era più piccolo giocavamo come fa un padre col figlio, e non nego che in qualche partitella gli ho fatto un po’ da scuola con qualche trucchetto. Ma non ne aveva bisogno, perché possedeva un talento naturale e non doveva essere instradato». Emiliano Busca ha vinto un europeo Juniores con l’Italia, è stato nel giro della nazionale maggiore con ct Ettore Messina, è stato capitano di lungo corso della Virtus con cui ha ancora il record di assist, prima di ritirarsi a 31 anni. «Ha ancora quel record perché era uno che vedeva molto bene la partita - ha confessato Vincenzo -, grande penetratore, molto veloce, con un’ottima tecnica. È stato purtroppo sfortunato subendo ben otto operazioni che l’hanno martoriato per tanti anni». Da padre a nonno il passo è stato breve, perché il nipote Sean, oggi al Basket Roma, si sta facendo strada molto velocemente. «Vado a vedere eccome le sue partite. Anzi - ha commentato emozionato Busca senior -, faccio cose mai fatte quando seguivo mio figlio al PalaEur con Milano o Bologna con dieci mila spettatori. Agli incontri di mio nipote soffro più di prima». Tecnicamente il pensiero del nonno è lucido. «Io ero una guardia e la mia migliore dote era il tiro, però non ero un bravo palleggiatore e non sapevo fare tante altre cose. Avevo bisogno dei blocchi per uscire e tirare. Emiliano era invece un giocatore completo, un play che faceva giocare la squadra, il mio opposto dato che da buon tiratore ero un mangia palloni e litigavo con gli allenatori perché tiravo troppo. Mio nipote è diverso da tutti e due. È un tiratore mancino alto oltre 2 metri che gioca ala, per cui abbiamo tre ruoli diversi. L’unica cosa che mi accomuna a mio nipote è il tiro, ma Sean si sposa meglio con il basket attuale nel quale si tira tanto da tre ed è micidiale, mentre ai miei tempi non c’era l’arco. Deve migliorare in grinta e lavorare sul fisico - ha osservato il nonno - perché è ancora molto magro».
Emiliano Busca è stato un predestinato, partito dalla sua città alla conquista di Roma. «Mia mamma seguiva le partite di papà e mi ha raccontato che ho iniziato a respirare l’odore dei campi nella sua pancia. Ad un anno e mezzo, appena imparato a camminare - ha ricordato Emiliano - avevo già la palla con me. Insomma, sono nato e cresciuto sui campi da basket». Nato a Roma solo per una questione di ospedale, è cresciuto a Palestrina «dove ho mosso i primi passi. A 12 anni sono passato al Banco Roma ma prima ho fatto un anno in prestito alla Vis Nova. Prendevo l’autobus da Palestrina ed era un viaggio perché ci mettevo più di un’ora per arrivare. Al ritorno invece mi veniva a prendere papà quando staccava da lavoro. I problemi sono sopraggiunti quando a 16 anni ho iniziato ad allenarmi con la prima squadra della Virtus. Gli allenamenti si svolgevano molto presto e non facevo in tempo ad arrivare con l’autobus. Per aggirare il problema mi accompagnava mio padre, oppure qualche conoscente. I sacrifici fatti dalla mia famiglia sono stati tanti». Da figlio a padre, oggi è dall’altra parte della barricata. «Adesso sto facendo la stessa identica cosa, ed anche di più. A differenza di mio padre che all’epoca aveva solo me che giocavo fuori città, io ho tre figli su quattro che giocano a pallacanestro, ma solo perché l’ultimo ha 5 anni ed ha ancora tempo per fare quello che vorrà. Le difficoltà per accompagnarli ad allenamenti e partite sono inimmaginabili, ma lo si fa con tanta passione per loro».
La famiglia Busca. In alto da destra, nonno Vincenzo,
il figlio Emiliano, il nipote Sean e l'altro figlio Alessandro.
In basso da destra i nipoti Nicole, Leonardo e Christopher
  

Ancora oggi Emiliano è ben ricordato dalla piazza romana, e non solo per il record di assist in maglia Virtus. «Sono attestati di stima che mi lusingano. Sono stato il ragazzino cresciuto nelle giovanili, ma credo di essere apprezzato perché in campo ero generoso. Una cosa che tra l’altro mi ha accorciato la carriera, avendo giocato spesso sugli infortuni. Mi sono ritirato perdendo almeno 5-6 anni nei quali potevo trasmettere esperienza e leadership. Ho comunque iniziato molto presto la carriera da giocatore. A 16 anni ho esordito in serie A - ha rammentato Busca junior - e a 18 mi sono sottoposto alla prima operazione. Una volta smesso ho preso la tessera per allenare, ma non ho praticato perché dopo aver passato tanti anni nelle palestre, e con la nascita di Sean, sentivo che non faceva per me». Come già anticipato, Sean, classe 2003, è il primogenito ma non il solo della famiglia a seguire le orme di nonno Vincenzo e papà Emiliano. Nicole, classe 2006, ha vinto lo scudetto U14 femminile nel 2019 con il Basket Roma, ed è aggregata alla serie B, mentre allo stesso club milita anche Christopher. «Non ho forzato i miei figli a giocare, è venuto tutto naturale. Sugli spalti soffro molto più di quando ero giocatore, con l’adrenalina che ti scorreva in corpo. Stando fuori stai più sulle spine. Poi - ha continuato Emiliano - da ex atleta vedo le cose in maniera diversa, e vorresti che i tuoi figli facessero cose che però, onestamente, non sono ancora in grado di fare per l’età. Sono severo nel fargli notare errori e difetti anche se non dovrei, perché si devono divertire e stare bene in campo con gli altri ragazzi. Comunque finisce tutto lì, con qualche consiglio per il loro bene che spero sia sempre ben accetto, così come me li dava mio padre a suo tempo».
I consigli sono soprattutto per Sean, che «gioca con l’U19 Eccellenza e, contemporaneamente, disputa la C Silver. Un bel banco di prova per questi ragazzi tutti giovanissimi. È un’esperienza positiva contro squadre più mature e scafate. Cerco di dargli più consigli possibili per quello che può ascoltare, perché mi accorgo che spesso stargli addosso non è produttivo. Poi ci sono gli allenatori che sono bravi. Sto al mio posto, ma credo che se un ex giocatore di serie A dà un consiglio al proprio figlio debba essere apprezzato». Anche Emiliano prova i confronti. «Io ero il classico play anni ’90, mentre mio figlio ha iniziato a giocare da play ma poi si è ritrovato ad avere una crescita spaventosa intorno ai 15 anni arrivando oltre i 2 metri d’altezza. Adesso non può più giocare in regia ma si alterna tra la guardia e l’ala potendo essere schierato anche da ‘4’ atipico. Ho visto giocare poco mio padre, ma mio figlio ha un discreto tiro come lo aveva il nonno. È ancora giovane con una spiccata dote offensiva, ma deve crescere col fisico perché ancora fragile e leggero e può trovare avversari della stessa altezza che pesano molto di più. Ci sta lavorando insieme alla sua società, ma a volte dipende anche dalla propria struttura fisica perché puoi sì migliorare, ma non puoi neppure snaturare il tuo corpo forzandolo». Quando la famiglia si ritrova tutta insieme «sono soprattutto loro che parlano di partite e compagni di squadra. Però non sono tante le occasioni tra allenamenti e studio. Succede più d’estate, quando si possono fare due tiri ai campetti. Ma anche in quelle circostanze c’è bisogno di staccare perché altrimenti poi il troppo stroppia».

Anche Sean, miglior marcatore della C Silver con una media di 18 punti, ha iniziato a Palestrina «con coach Emanuele Cecconi (figlio di Flavio, compagno di squadra del nonno e primo allenatore del papà, ndr). All’inizio era solo un’attività fisica - ha confessato il primogenito di Emiliano -, ma adesso sto prendendo la cosa in maniera più seria. Gioco da guardia-ala e il tiro da 3 è l’aspetto sul quale baso maggiormente il mio gioco. Ormai anche le squadre avversarie cercano di negarmelo in qualsiasi modo. Vorrei giocare al college, che reputo un ambiente molto competitivo. Sto lavorando per preparami al meglio e per andarci non la prossima stagione ma quella successiva. Vorrei giocare in America con l’obiettivo di ritornare in Italia ai massimi livelli. Sono stato accettato dalla Temple University ma quest’anno frequenterò lezioni a Roma, poi contatterò la squadra per vedere se sono interessati al secondo anno». Un po’ scettico a riguardo papà Emiliano. «Credo che rimarrà in Italia perché deve finire il suo percorso. Non è ancora pronto per certi palcoscenici e un certo tipo di pallacanestro. Deve migliorare alcuni aspetti del gioco, la difesa e le letture, ma a 19 anni credo sia normale. Deve fare tesoro ogni giorno dei propri errori per non ripeterli».
Certamente ha chi lo segue da vicino con l’obiettivo di farlo progredire, come l’ex Virtus Giuliano Maresca, oggi suo coach, e chi lo sostiene dagli spalti. «Con la serie C abbiamo fatto un ottimo girone di ritorno ma essendo una squadra giovane non siamo arrivati ai playoff. Ora siamo concentrati per la fase interzona del campionato d’Eccellenza con il sogno, magari, di giocarci la finale nazionale. Giuliano mi ha seguito molto da vicino quest’anno aiutandomi a sviluppare il mio gioco il più possibile, e spingendomi a lavorare sulle cose che non sono le mie priorità per cercare di espandere il bagaglio tecnico così da diventare un giocatore più completo. I miei parenti vengono molto spesso a vedere le partite. Papà è sempre stato tranquillo, ma quest’anno, vedendo che ho fatto un salto di qualità più evidente, cerca di darmi tanti consigli. Anche nonno dà il suo supporto, ma durante le partite penso poco a quello che succede sugli spalti e resto concentrato su quello che avviene in campo. Mi è stato raccontato che nonno era un tiratore e papà, da grande play, un contropiedista che faceva segnare gli altri. Il mio stile di gioco è diverso anche se credo più simile a quello di nonno».