venerdì 16 dicembre 2016

Il futsal all’Università: progetto sulla Supercoppa a Tor Vergata

Il futsal all’Università: progetto sulla Supercoppa a Tor Vergata


Il futsal finisce all’Università Tor Vergata. La diretta multimediale della Supercoppa Italiana, giocata il 9 novembre a Teramo tra Real Rieti e Pescara (e vinta dagli abruzzesi), autoprodotta dalla Divisione Calcio a cinque e distribuita da PMG s.r.l. (Pulse Media Group), ha raggiunto 388 mila persone ed è diventata oggetto di studio di un progetto universitario.
Giovanni Bocciero e Silvia Aldi, ragazzi che frequentano un master in Marketing e Management dello Sport all’Università Roma Tor Vergata, hanno presentato il progetto di comunicazione e crossmedialità nel futsal, nell’ambito della ricerca voluta da Marcel Vulpis, direttore di Sporteconomy. “Abbiamo diviso il lavoro in tre parti, confontando la diretta multimediale della gara con altri esperimenti, come la NFL su Twitter, Wimbledon o altri progetti multimediali che sta facendo la FIBA - dice Bocciero -. Abbiamo controllato gli spettatori attuali del match nei vari momenti della gara, lavorando su un campione. Quasi il 75% di loro ha visto la gara dallo smartphone e il 65% stava guardando solo la partita. Qualche altro ha coniugato la visione della Supercoppa con una Fiction, un film o un documentario”.
L’evento, secondo lo studio, ha scaturito effetti positivi sulla pagina Facebook della Divisione. “Nei 4 giorni successivi alla diretta sono aumentati i “mi piace” sulla pagina, per una media di 44 a post. Poi abbiamo continuato lo studio studiando la comunicazione sui Social di due società di Serie A, come Lollo Caffè Napoli e Axed Group Latina. Un’idea singolare, che nasce quasi per caso. “Ho visto dal vivo una sola gara di futsal, la semifinale dell’Europeo 2003 vinto dall’Italia - continua Bocciero -. Silvia, invece, è di Latina e segue l’Axed Group”.

Cliccando qui si può andare al link ufficiale!

mercoledì 7 dicembre 2016

Dall'High School alla NBA: la discussione si fa rovente

DallHigh School alla NBA: la discussione si fa rovente
Bandito dal commissioner David Stern nel 2005, bollato di razzismo, Adam Silver vuole limitare ancora di più il salto


di Giovanni Bocciero*

Da Reggie Harding nel 1962, passando per Haywood, Malone
e fino a Dawkins, tanti casi scottanti. Nella foto Ben Simmons.
Il sistema NCAA è stato più volte messo in discussione negli ultimi anni. Le maggiori critiche sono state mosse proprio dai giocatori, non ultimo la prima scelta assoluta del draft 2016 Ben Simmons. Il talento australiano ha ribadito come l’obbligo di fare un anno al college non serva a nulla per quegli atleti che vorrebbero in realtà compiere il grande salto in NBA direttamente dall’high school. Ma analizziamo nel dettaglio questo spinoso argomento.

PRIMI CASI. Il primo giocatore ad essere stato chiamato al draft senza passare per il college fu Reggie Harding nel 1962. A sceglierlo furono i Detroit Pistons ma non scese in campo sino alla stagione 1963/64. Anni dopo ci fu la prima regola stabilita dalla NBA per cui un giocatore non poteva rendersi eleggibile se non erano trascorsi quattro anni dal diploma. Questa regola fu violata nel 1970, quando i Seattle SuperSonics decisero di ingaggiare Spencer Haywood. Diplomatosi alla Pershing HS nel 1967, frequentò l’University of Detroit prima di firmare per i Denver Rockets (antenati dei Nuggets) in ABA. Tempo due anni e approdò in NBA tra le fila dei SuperSonics contravvenendo alla norma dei quattro anni dal diploma. Venne così fatta una petizione all’antitrust contro la lega, e il caso finì addirittura davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti che emise una sentenza di 7-2 a favore di Haywood. Dopo questa decisione la NBA permise agli atleti di lasciare in anticipo l’università purché dimostrassero l’“hardship case”, ovvero che avessero un disagio finanziario che poteva essere attutito con il passaggio al professionismo. Altri casi di prep-to-pro si ebbero nel 1974 con Moses Malone che passò dal liceo all’ABA, ingaggiato dagli Utah Stars, finendo poi in NBA quando queste arrivarono a fondersi; mentre al draft del 1975 venne selezionato dai Philadelphia 76ers Darryl Dawkins che si dichiarò eleggibile dimostrando di vivere in difficoltà economiche.

Con Kevin Garnett (nella foto) la "revolution". Dopo di lui
altri 38 atleti a cominciare da un certo Kobe Bryant.
RIVOLUZIONE. Ci vogliono vent’anni per rivedere un liceale compiere il grande salto: era il 1995 e si trattava di Kevin Garnett. Il campione NBA soprannominato non a caso “the revolution”, rivoluzionò l’idea del passaggio dal liceo al professionismo perché l’ex Minnesota e Boston non aveva apparentemente difficoltà economiche, ma di certo non amava la scuola. Credeva invece - e a posteriori con ragione - di valere la lega appena diciottenne. All’indomani del suo avvento, la nota rivista sportiva Sports Illustrated titolava con lui in copertina: «Ready or not...». In barba allo scetticismo tanto tecnico quanto fisico, Garnett dimostrò tutto il suo valore, e sulla sua scia toccò poi ai vari Kobe Bryant, Tracy McGrady, Amar’e Stoudemire, LeBron James e Dwight Howard, per un totale di 39 giocatori.
Si poteva facilmente notare come aumentò l’afflusso dei diplomati scelti al draft, e così il commissioner David Stern pensò bene di mettere un freno a tutto ciò durante la trattativa per il contratto collettivo tra il sindacato giocatori e la NBA nel 2005. Stern propose un limite d’età a 20 per l’eleggibilità, dichiarando che troppi giovani afroamericani stavano usando la lega in modo non corretto per farsi strada, raggiungere la fama e sistemarsi finanziariamente. La maggior parte degli atleti fu contrario ad introdurre un limite, e addirittura Jermaine O’Neal - che aveva compiuto il salto nel 1996 - accusò il commissioner di razzismo. Alla fine, però, l’unione giocatori trovò un compromesso sui 19 anni, e inoltre ottenne delle modifiche alle regole di protezione degli stipendi. Le reazioni dei cestisti liceali furono furibonde. Bill Walker dichiarò che: «È ridicolo che devi avere 19 anni per giocare a basket quando puoi averne 18 per andare in guerra e morire per il tuo paese». Gli fece eco Jerryd Bayless: «Se un giocatore di tennis può essere professionista a 13 anni, non riesco a capire perché un giocatore di basket non lo possa essere a 18». Contraddizioni di quel fantastico paese chiamato Stati Uniti che dopotutto tanto liberale non è. Il rinnovo del contratto collettivo che ha portato al lock-out nel 2011 non ha apportato modifiche in tale ambito, per questo i requisiti minimi per essere eleggibili sono: compiere 19 anni nell’anno del draft; essere trascorso almeno un anno dal giorno del diploma.

Da Jennings (nella foto) a Mudiay molti i giocatori che per saltare
l'ostacolo sono andati all'estero prima di approdare nella NBA.
ONE-AND-DONE. Nel 2005 venne dunque introdotta la nuova normativa per i liceali che vorrebbero approdare direttamente in NBA, ovvero che devono giocare per almeno un anno al college prima di potersi dichiarare al draft. La maggior parte di questi talenti one-and-done decide di spendere l’anno all’università, altri invece preferiscono aggirare lo studio - anche perché non sono portati - firmando in D-League o addirittura all’estero così da monetizzare immediatamente. Abbiamo gli esempi di Brandon Jennings che da Oak Hill Academy giunse a Roma, e di Emmanuel Mudiay che dopo aver accettato la borsa di studio di Southern Methodist ripiegò per la Cina. Thon Maker l’estate scorsa è stato un caso particolare che ha fatto molto scalpore. Dichiaratosi per il draft, ha dimostrato alla lega professionistica di aver terminato il liceo un anno prima ed essere rimasto ad Orangeville Prep da studente post-diploma.

DIO DENARO. La polemica sull’anno obbligatorio al college è stata risollevata circa un mese fa da Simmons. Le sue dichiarazioni sull’inutilità di trascorrere una stagione in NCAA, in realtà, palesavano non tanto la voglia di diventare quanto prima professionista, piuttosto quella di guadagnare dal ritorno mediatico che hanno le università, sempre più macchine da business tra diritti televisivi, merchandising e botteghino. Insomma verrebbe da citare che anche la tasca vuole la sua parte. E qui ci si contrappone alla regola fondamentale dell’associazione universitaria, ovvero quella che i giocatori devono essere qualificati quali “student-athlete” senza alcuna remunerazione. È forse questo il fulcro vero del dibattito. Dopotutto già negli anni ‘70 campioni come Malone erano spinti al grande salto per il loro talento che gli avrebbe garantito lauti guadagni. E allora la vera domande è se questi fenomeni della nuova generazione non debbano ricevere compensi dai college per cui giocano, e che contribuiscono a far arricchire con le loro decisioni e prestazioni.

CORRENTI DI PENSIERO. La parola fine di questa faccenda non sembra trovarsi dietro l’angolo. A tal proposito si fronteggiano due diversi schieramenti, proprio come i Guelfi ed i Ghibellini nella Firenze medievale. Da un lato c’è il fronte di quelli che ragionano in modo imprenditoriale, e dunque vedono gli atleti come dei dipendenti che producono ed hanno diritto allo stipendio; dall’altro c’è il fronte più sociale, che considera i giocatori degli studenti e come tali devono seguire indifferentemente l’insegnante come l’allenatore apprendendo e senza nulla pretendere se non la conoscenza, tanto culturale quanto cestistica. Il problema è che tali atleti non hanno intenzione di apprendere soprattutto se sin dal liceo vengono pompati dai procuratori che gli promettono mari e monti e dalle famiglie che in loro vedono la cosiddetta gallina dalle uova d’oro. E vista la volontà del commissioner NBA Adam Silver di portare l’obbligo per l’eleggibilità a due anni dopo aver conseguito il diploma, la situazione si potrebbe ulteriormente complicare. L’atmosfera NCAA è unica, e gli ingaggi potrebbero effettivamente inquinarla, perché come per i pro gli atleti potrebbero decidere di giocare per chi gli offrirà di più rispetto al prestigio degli atenei.



* per il mensile BASKET MAGAZINE