Dall’High School alla NBA: la discussione si fa rovente
Bandito dal commissioner David Stern nel 2005, bollato di razzismo, Adam Silver vuole limitare ancora di più il “salto”
di Giovanni Bocciero*
Da Reggie Harding nel 1962, passando per Haywood, Malone e fino a Dawkins, tanti casi scottanti. Nella foto Ben Simmons. |
PRIMI CASI. Il primo giocatore ad
essere stato chiamato al draft senza passare per il college fu Reggie Harding nel 1962. A sceglierlo
furono i Detroit Pistons ma non scese in campo sino alla stagione 1963/64. Anni
dopo ci fu la prima regola stabilita dalla NBA per cui un giocatore non poteva
rendersi eleggibile se non erano trascorsi quattro anni dal diploma. Questa
regola fu violata nel 1970, quando i Seattle SuperSonics decisero di ingaggiare
Spencer Haywood. Diplomatosi alla
Pershing HS nel 1967, frequentò l’University of Detroit prima di firmare per i
Denver Rockets (antenati dei Nuggets) in ABA. Tempo due anni e approdò in NBA
tra le fila dei SuperSonics contravvenendo alla norma dei quattro anni dal
diploma. Venne così fatta una petizione all’antitrust contro la lega, e il caso
finì addirittura davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti che emise una
sentenza di 7-2 a favore di Haywood. Dopo questa decisione la NBA permise agli
atleti di lasciare in anticipo l’università purché dimostrassero l’“hardship case”, ovvero che avessero un
disagio finanziario che poteva essere attutito con il passaggio al
professionismo. Altri casi di prep-to-pro
si ebbero nel 1974 con Moses Malone
che passò dal liceo all’ABA, ingaggiato dagli Utah Stars, finendo poi in NBA
quando queste arrivarono a fondersi; mentre al draft del 1975 venne selezionato
dai Philadelphia 76ers Darryl Dawkins
che si dichiarò eleggibile dimostrando di vivere in difficoltà economiche.
Con Kevin Garnett (nella foto) la "revolution". Dopo di lui altri 38 atleti a cominciare da un certo Kobe Bryant. |
Si poteva facilmente notare come aumentò l’afflusso dei diplomati scelti al draft, e così il commissioner David Stern pensò bene di mettere un freno a tutto ciò durante la trattativa per il contratto collettivo tra il sindacato giocatori e la NBA nel 2005. Stern propose un limite d’età a 20 per l’eleggibilità, dichiarando che troppi giovani afroamericani stavano usando la lega in modo non corretto per farsi strada, raggiungere la fama e sistemarsi finanziariamente. La maggior parte degli atleti fu contrario ad introdurre un limite, e addirittura Jermaine O’Neal - che aveva compiuto il salto nel 1996 - accusò il commissioner di razzismo. Alla fine, però, l’unione giocatori trovò un compromesso sui 19 anni, e inoltre ottenne delle modifiche alle regole di protezione degli stipendi. Le reazioni dei cestisti liceali furono furibonde. Bill Walker dichiarò che: «È ridicolo che devi avere 19 anni per giocare a basket quando puoi averne 18 per andare in guerra e morire per il tuo paese». Gli fece eco Jerryd Bayless: «Se un giocatore di tennis può essere professionista a 13 anni, non riesco a capire perché un giocatore di basket non lo possa essere a 18». Contraddizioni di quel fantastico paese chiamato Stati Uniti che dopotutto tanto liberale non è. Il rinnovo del contratto collettivo che ha portato al lock-out nel 2011 non ha apportato modifiche in tale ambito, per questo i requisiti minimi per essere eleggibili sono: compiere 19 anni nell’anno del draft; essere trascorso almeno un anno dal giorno del diploma.
Da Jennings (nella foto) a Mudiay molti i giocatori che per saltare l'ostacolo sono andati all'estero prima di approdare nella NBA. |
DIO DENARO. La polemica sull’anno
obbligatorio al college è stata risollevata circa un mese fa da Simmons. Le sue
dichiarazioni sull’inutilità di trascorrere una stagione in NCAA, in realtà,
palesavano non tanto la voglia di diventare quanto prima professionista,
piuttosto quella di guadagnare dal ritorno mediatico che hanno le università,
sempre più macchine da business tra diritti televisivi, merchandising e
botteghino. Insomma verrebbe da citare che anche la tasca vuole la sua parte. E
qui ci si contrappone alla regola fondamentale dell’associazione universitaria,
ovvero quella che i giocatori devono essere qualificati quali “student-athlete” senza alcuna
remunerazione. È forse questo il fulcro vero del dibattito. Dopotutto già negli
anni ‘70 campioni come Malone erano spinti al grande salto per il loro talento
che gli avrebbe garantito lauti guadagni. E allora la vera domande è se questi
fenomeni della nuova generazione non debbano ricevere compensi dai college per
cui giocano, e che contribuiscono a far arricchire con le loro decisioni e prestazioni.
CORRENTI DI PENSIERO. La parola fine di
questa faccenda non sembra trovarsi dietro l’angolo. A tal proposito si
fronteggiano due diversi schieramenti, proprio come i Guelfi ed i Ghibellini
nella Firenze medievale. Da un lato c’è il fronte di quelli che ragionano in
modo imprenditoriale, e dunque vedono gli atleti come dei dipendenti che
producono ed hanno diritto allo stipendio; dall’altro c’è il fronte più
sociale, che considera i giocatori degli studenti e come tali devono seguire
indifferentemente l’insegnante come l’allenatore apprendendo e senza nulla
pretendere se non la conoscenza, tanto culturale quanto cestistica. Il problema
è che tali atleti non hanno intenzione di apprendere soprattutto se sin dal
liceo vengono pompati dai procuratori che gli promettono mari e monti e dalle
famiglie che in loro vedono la cosiddetta gallina dalle uova d’oro. E vista la
volontà del commissioner NBA Adam Silver
di portare l’obbligo per l’eleggibilità a due anni dopo aver conseguito il diploma,
la situazione si potrebbe ulteriormente complicare. L’atmosfera NCAA è unica, e
gli ingaggi potrebbero effettivamente inquinarla, perché come per i pro gli atleti
potrebbero decidere di giocare per chi gli offrirà di più rispetto al prestigio
degli atenei.
* per il mensile BASKET MAGAZINE
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