Il suo primo coach: "Passione illimitata,
è nata qui la Mamba-Mentality"
La leggenda di Kobe è nata a Rieti, dove approdò a sei anni e dove è rimasto semplicemente "il figlio di Joe"
di Giovanni Bocciero*
RIETI
- Il viaggio di Kobe Bryant in Italia ha avuto inizio alle pendici del
Terminillo, quando aveva soltanto sei anni. Seguendo i trasferimenti del papà
Joe ha poi fatto su e giù per la nostra penisola, ma è a Rieti che è nata la
leggenda del Black Mamba. Dal 1984 al 1986 ha frequentato le scuole primarie di
Lisciano e il palasport di Campoloniano. Alla sua scomparsa la città ha vissuto
giorni molto tristi, proprio come quando 15 anni fa vi fu la dipartita del
beniamino Willie Sojourner, al quale è stato poi intitolato il palazzetto.
«È come se fosse morto
uno di famiglia - ha detto il suo primo allenatore in
Italia, Gioacchino Fusacchia -. Era un
figlio adottivo di Rieti». La tifoseria reatina e la NPC Rieti, con la
partecipazione del Comune e della Provincia di Rieti, lo hanno ricordato nella
gara dello scorso 5 febbraio con una cerimonia che ha visto l’apposizione della
maglia numero 24 dei Lakers al soffitto del palasport dove Kobe ha mosso i
primi passi da cestista. Inoltre, sembra sia stato già avviato l’iter per l’intitolazione
di una strada cittadina al figlio di Joe.
Sì,
perché anche se Kobe ha avuto una carriera molto più prestigiosa del papà, a
Rieti rimarrà sempre il figlio di Joe. «A
quell’età non si può capire se un ragazzo diventerà qualcuno - ha
continuato Fusacchia -, quindi è inutile
fare un certo tipo di affermazioni. Di sicuro rispetto a tanti suoi coetanei
aveva una passione illimitata, che con il tempo è poi diventata la sua più
grande ossessione fino a plasmare la Mamba mentality. Quando veniva in palestra
faceva allenamento con il suo gruppo, e poi rimaneva anche con i gruppi
giovanili più grandi. Giocava per diverse ore consecutive, senza tregua, e non
gli si poteva dire nulla perché era il figlio del mitico Joe».
Quando
non era impegnato a scuola o in palestra si incamminava verso il campetto degli
Stimmatini dove continuava a tirare imperterrito ad un canestro. Eppure quelle
strade, una volta lasciate, non l’hanno visto mai fare ritorno. Con Rieti è
mancato quell’imprinting tanto che il giornalista Luigi Ricci ha messo
addirittura in discussione se se la ricordasse. La città avrebbe voluto essere
più partecipe nella vita del Black Mamba, tanto che sembra nel 2003 il Comune abbia
tentato di conferirgli un riconoscimento andando fino a Los Angeles ma senza
riuscire a combinare la cosa per i suoi molteplici impegni.
Nonostante ciò, la città
può senz’altro fregiarsi del ruolo di plantageneta della leggenda Bryant, come
sempre ricorda Ricci. È qui che Kobe ha iniziato a giocare a pallacanestro e ad
imparare l’italiano prima di girovagare per la nostra penisola. Quell’italiano
che gli apparteneva così tanto che quando ha fatto ritorno negli Stati Uniti
non riusciva più a capire lo slang dei giovani afroamericani. «L’ho visto per l’ultima volta a Torino, quattro
o cinque anni dopo che se ne andò - ha detto Fusacchia -, ad un torneo giovanile quando giocava a
Reggio Emilia. Fu carino a venire a salutarci e fare delle foto con i suoi
vecchi compagni. Purtroppo è vero che a Rieti non ha più coltivato le amicizie,
ma bisogna comunque considerare che era un bambino e i suoi ricordi non erano
così nitidi come altrove. Sarebbe potuto ritornare se il papà Joe fosse
diventato allenatore della Sebastiani tempo fa. Ma so per certo, tramite quella
che fu l’interprete della mamma Pamela qui in città e che ha continuato ad
avere rapporti con la famiglia Bryant a distanza di anni - ha concluso l’allenatore
-, che sarebbe voluto ritornare in ogni caso».
* per la rivista BASKET MAGAZINE
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