Mike D'Antoni e le 4 vite di Arsenio Lupin
di Giovanni Bocciero*
Riva:
«Mike sfortunato, ma mai un perdente»
Il grande ritorno. Nella grande stagione di Houston, il personale riscatto di Mike dopo le delusioni e le brutte esperienze con i New York Knicks ed i Los Angeles Lakers |
Se
si guardano immagini delle diverse squadre allenate da Mike D’Antoni, si farà caso che i dettami tattici sono pressoché
gli stessi da anni ormai. Dagli inizi in quel di Milano e Treviso, all’approdo
in NBA dove è stato seduto sulle panchine di Denver, Phoenix, New York, Lakers
e Houston. Con risultati alterni ma pur senza snaturare la propria idea
cestistica, ovvero quella di correre in campo aperto, difendere allo stremo e
tirare velocemente. «È sempre stato il
suo credo - ha rivelato Antonello
Riva -. Ricordo che per aumentare i
possessi offensivi avevamo messo la regola che dopo qualsiasi canestro segnato
pressavamo l’avversario per ritornare immediatamente in possesso del pallone.
Oppure lo obbligavamo a velocizzare il proprio attacco. Facevamo tanti esercizi
in allenamento proprio per velocizzare il nostro modo di andare a canestro».
Uno stile di gioco che lo ha bollato come perdente oltreoceano, fin quando non
sono esplosi i Warriors. «Inutile dire
che soprattutto per gli allenatori non dipende unicamente dal proprio operato,
ma prima di tutto dal rendimento dei giocatori e poi soprattutto dalla
situazione societaria. Credo ad esempio - ha continuato l’ex Milano - che a New York sia arrivato nel momento
peggiore della franchigia a livello di struttura societaria. È semplicemente
capitato al posto sbagliato nel momento sbagliato perché le qualità di Mike non
si discutono dopo tutti gli anni trascorsi in Italia e in NBA. E oggigiorno lo
reputo uno dei migliori allenatori al mondo». La fiducia è un aspetto
imprescindibile? «Una delle qualità di
Mike è quella di mettere a proprio agio i suoi giocatori. Il fatto di essere
stato un grande atleta è per lui un vantaggio, perché - ha concluso il
bomber - lo aiuta a capire
psicologicamente il giocatore che ha di fronte».
Pittis:
«È un campione, con le sconfitte cresce»
Affinché
le squadre di Mike D’Antoni rendano
al massimo c’è bisogno che i giocatori dispongano della necessaria
disponibilità nei suoi confronti. «Noi
avevamo totale fiducia in Mike - ha dichiarato Riccardo Pittis -. Non
avevamo alcun dubbio che le scelte prese fossero buone». L’ala ex Milano e
Treviso fu l’oggetto della rivoluzione tattica, ovvero il primo esempio di small ball. «Sia per l’esigenza di coprire una posizione dove mancava un giocatore
di ruolo, che per provare qualcosa di diverso, Mike decise di spostarmi da ‘3’
a ‘4’. L’esperimento, che era più una opzione e non una norma, funzionò
talmente bene che lo ha fatto suo». Per vincere D’Antoni deve sentire che i
giocatori sono con lui, perché «come in
ogni situazione e per ogni persona, quando il gruppo ti segue diventa più
facile mettere in pratica le tue idee. Questo ambiente - ha raccontato
Pittis - si creò a Milano e Treviso, e
sono certo che è così a Houston come prima ancora a Phoenix. Per quanto
riguarda le esperienze di New York e Los Angeles, non è che le sue idee non
abbiano funzionato, semplicemente erano delle situazioni particolari con
squadre composte da giocatori estremamente difficili da gestire. E come
dimostrano i risultati successivi non ha fallito solo lui. Per quanto mi
riguarda, probabilmente se mi avesse messo a giocare da ‘5’ sarebbe andato bene
lo stesso». Ma come può passare da due anni di inattività all’essere quasi
il coach dell’anno in NBA? «Mike ha il Dna
del campione, non si ferma davanti alle sconfitte ma anzi, ne trae insegnamento
e si evolve. Sono particolarmente contento per lui perché so quanto ci tiene e
con quale passione svolge il suo lavoro. Ha una smisurata voglia di insegnare
pallacanestro e - ha concluso l’attuale telecronista Rai - di divertirsi facendo giocar bene».
Meneghin:
«Maniaco del lavoro, non del sistema»
Il
coach di Houston è stato spesso additato come fossilizzato su di un unico
sistema di gioco. È realmente così? «Mike
è sempre stata una persona molto flessibile - ha commentato Dino Meneghin -, non si fissa su di una cosa portandola avanti a qualunque costo.
Chiaramente tutto dipende dai risultati, perché se questi arrivano con un modo
di gioco allora prosegue, ma se bisogna apportare delle migliorie cambia
sistema adattandosi ai giocatori che ha a disposizione. È una persona
intelligente e grande conoscitore del gioco, e sa di non dover continuare se le
cose vanno male. In NBA è costretto a cambiare registro e ad adattarsi. È
testardo in realtà dal punto di vista del lavoro, per il resto è attento a ciò
che gli succede intorno». E perché allora non è riuscito a vincere a New
York e a Los Angeles? «Quegli anni sono
stati difficile perché è estremamente complicato lavorare in quelle due piazze
dove già soltanto arrivare secondi è un insuccesso. Ha patito certamente tutto
l’ambiente, e il fatto di avere a disposizione dei giocatori che pensavano più
a sé stessi che al gioco di squadra, cosa che lui predilige. Mike - ha
continuato l’ex presidente FIP - riesce
ad ottenere i risultati se ha tra le mani atleti che sanno mettere la squadra
al primo posto, che non guardano al tabellino personale. Evidentemente
quest’anno ha questo tipo di giocatori che fanno rendere al meglio il tipo di
gioco che vuole». Ma per imporsi D’Antoni ha solo bisogno di vincere? «Il sogno di tutti è vincere. In America è
quello dell’anello. Per fortuna in NBA non guardano soltanto alle vittorie ma
ai risultati che ottieni. La consacrazione arriva se vince, ma puoi avere una
buona nomea - ha concluso l’ex Milano -
se riesci a far migliorare il gruppo di giocatori, trasformandoli in una
squadra vera».
* per la rivista BASKET MAGAZINE
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