Yakhouba Diawara: tutto lavoro e tanto cuore
Torniamo a scoprire l'ala francese 'usato sicuro', vecchia conoscenza del nostro basket. Ragazzo umile, che non dimentica l'infanzia difficile: si sente un privilegiato, vuole aiutare i più giovani.
di
Giovanni Bocciero*
CASERTA
- Ragazzo umile, disponibile, che ricorda da dove viene così da vivere al
meglio il suo presente e futuro. Questo è Yakhouba
Diawara, ala francese alla sua sesta esperienza in Italia con la
JuveCaserta. Un rinforzo ponderato, che è risultato essere decisivo sin dal suo
esordio con il canestro vincente in quel di Reggio Emilia. Un grande attestato
di stima da parte di coach Sandro Dell’Agnello
che gli ha affidato l’ultimo tiro, e dei nuovi compagni di squadra che hanno
riposto subito fiducia in lui. Già bene integrato nel gruppo, l’esperienza maturata
ad un discreto livello in NBA (187 presenze con una media di 14 minuti e 3.5
punti) potrà sicuramente aiutare Caserta ad accedere ai playoff che mancano dal
2009/10.
Un cugino nel Bordeaux e il Diawara del Napoli è un suo lontano parente. Lui disse no al calcio perché d'inverno faceva troppo freddo |
Da bambino hai iniziato a
giocare a pallamano, poi invece hai cambiato sport. Come ti sei avvicinato al
basket?
«Sono cresciuto nel
periodo più esaltante di Michael Jordan,
che ho visto per la prima volta nel ‘93. In quegli anni la pallacanestro si è
diffusa in tanti playground, ed ho finito per innamorarmi di questo bellissimo
sport».
Qual è l’aneddoto che
ricordi con più piacere dei tuoi inizi col basket?
«Durante la prima partita
che ho giocato a Parigi ho messo a segno un paio di canestri in fila, e questo
ha fatto entusiasmare pubblico e compagni. Mi è piaciuta la loro reazione e
l’ho trovata così pazzesca da rendermi felice».
Ti piace molto anche il
calcio, ed hai un cugino che giocava da professionista in Francia?
«Ho giocato anche a
calcio ma ho lasciato siccome d’inverno faceva freddo e preferivo stare al
coperto e al caldo. Ho un cugino che ha giocato al Bordeaux, ma anche il
centrocampista del Napoli Amadou Diawara
è un mio parente alla lontana. Dovrei chiedere a mia mamma per risalire alla
parentela (ride!)».
Quando giocavi da bambino
ti immaginavi già di diventare un giocatore professionista?
«Ho iniziato a giocare
per divertimento, in maniera tranquilla. Poi con il passare degli anni ho visto
che giocavo bene, ho iniziato a lavorare tanto dopo la scuola, e allora mi sono
detto perché no! A diciotto anni ho vinto l’europeo con Tony Parker e mi sono impegnato sempre di più».
Ti sei poi trasferito
negli Stati Uniti, giocando al college prima a Southern Idaho e poi a
Pepperdine. A quel punto la NBA era un tuo sogno?
«Sicuramente con
l’esperienza a Pepperdine, perché ho avuto la possibilità di giocare in
Division I contro squadre come UCLA, USC, Gonzaga, e c’erano tanti coach e
scout che venivano a vedere le partite. Ricordo che in un match casalingo
proprio contro Gonzaga c’era Pat Riley
sulle tribune. A quel punto ho iniziato a pensare seriamente alla NBA».
La prima esperienza in
Italia è stata alla Fortitudo Bologna nel 2006. Arrivasti con la fama di essere
un pessimo tiratore per un problema alla vista, eppure registrasti il 54% dall’arco.
Cosa ricordi?
«Quando arrivai a Bologna
tutti dicevano che non tiravo, e che ero solo un difensore. Io volevo rispondere
con i fatti. Tiravo prima, durante e dopo l’allenamento, tutti i giorni. Sono
stati quattro mesi bellissimi che mi hanno fatto innamorare del basket italiano
per il suo gioco ed il suo calore che non si trovano in Francia e neppure nelle
arene dell’NBA».
Oltretutto le tifoserie
di Fortitudo e JuveCaserta sono gemellate?
«È una cosa fantastica. Anche
con Varese corrono buoni rapporti, e sono felice per questo perché si tratta di
squadre dove ho lasciato un pezzo di cuore e di cui sono un accanito tifoso».
"Dicevano che non tiravo mai: ho passato ore su ore in palestra per non essere considerato più soltanto un buon difensore" |
Dalla prima esperienza
italiana esattamente 11 anni fa, ad oggi che sei a Caserta, come è cambiato il
tuo gioco, il tuo approccio ad un match?
«Certamente adesso ho più
esperienza. Ad esempio a Brindisi ho fatto un anno così così dove potevo fare
di più. Poi a Varese è andata meglio, da semplice esterno ho iniziato anche a
giocare da ala forte. Anche qui a Caserta gioco spesso da lungo, e seppur
preferisco giocare da esterno sono pronto a sacrificarmi per la squadra.
L’obiettivo deve essere quello di riportare la JuveCaserta ai playoff».
Hai giocato con Carmelo
Anthony e Dwayne Wade. Com’è giocare con superstar di quel calibro?
«Ho giocato anche con il
mio idolo Allen Iverson. Lavorare
con dei marcatori ed atleti incredibili come loro, tutti i giorni, è un
qualcosa di fantastico. Ho cercato di apprendere tanto e far tesoro dei loro
insegnamenti».
Ormai conosci molto bene
l’Italia. C’è qualcosa in particolarmente che ti piace?
«L’Italia è decisamente
il mio paese preferito. Amo la lingua, il cibo, l’arte, il pubblico. Sono
francese ma amo più l’Italia che la Francia».
C’è un film - Benvenuti
al Sud - che racconta le distinzioni tra il Nord ed il Sud Italia. Tu hai
giocato in tante e diverse città. Esistono davvero queste differenze di
comportamento tra le persone?
«Credo che qualche
differenza ci sia. Al nord le persone sono più chiuse, lavorano duramente e si
vestono più chic. Al sud invece le persone sono aperte, solari, alla portata, e
lavorano con molta più tranquillità. Io però non faccio distinzioni perché mi
piacciono sia l’una che l’altra».
Sei della periferia
parigina - Tremblay precisamente -, ed hai avuto un’infanzia difficile. Come
sei arrivato ad essere l’uomo che sei oggi?
«Devo ringraziare la
mamma e il papà, che hanno saputo crescermi. Se oggi sono così la colpa è
unicamente loro (ride!).
Sono stato davvero fortunato ad avere due genitori come loro, così come i miei
fratelli e sorelle che mi hanno aiutato. Li ringrazio tutti i giorni e non lo
finirò mai di fare».
Durante il periodo di
inattività hai lavorato molto da solo, cercando la miglior forma fisica. È un
po’ la metafora della tua vita: lavorare duro per ottenere i risultati?
«Senz’altro. Il mio corpo
è il mio lavoro, e quindi se non lo curo non posso pensare di giocare, e di
farlo bene. Seguendo un campione come Kobe
Bryant, che a fine stagione non smetteva mai di lavorare, mi ha fatto
capire che per ambire al massimo e allungare quanto più possibile la carriera da
giocatore non devi mai fermarti. Mi reputo un professionista, e dunque devo
sfruttare tutte le opportunità che mi si presentano».
"Con la Nba ho realizzato il sogno. Michael Jordan il mio mito, da Kobe ho appreso la cultura del lavoro e ho giocato con Iveron" |
Parigi è la tua città,
come hai vissuto gli attentati terroristici e cosa ne pensi di questa
situazione che sta mettendo in ginocchio tutto il mondo?
«Mi ha fatto molto male.
È stato un momento molto difficile per tanti miei amici. Purtroppo non è stata
colpita solo Parigi, ma anche Londra, Istanbul, Berlino, Bruxelles. Non
possiamo certamente chiuderci in casa e non uscire più, facendoci condizionare.
Il mondo purtroppo sta andando così, ma chiunque deve continuare a vivere la
propria vita pregando che questi attentati finiscano quanto prima».
La Francia è una società multietnica,
testimoniata dalla stessa nazionale di basket. In Italia è all’ordine del
giorno il problema immigrazione. Cosa ti senti di dire?
«È piuttosto difficile
perché il tema dipende molto dalla politica. In Francia ci sono molti abitanti
di origine algerina, marocchina, senegalese e di tanti altri paese africani che
appartenevano alle ex colonie francesi. Molti di loro sono arrivati in Francia
per trovare lavoro. In Italia credo sia un po’ più difficile, e le poche cose
che so le ho apprese dalla televisione. Spero solo che tutti possano essere
felici».
Vivi negli Stati Uniti -
ha casa a Miami -. Cosa pensi del nuovo presidente Donald Trump e come vedi il
futuro in America?
«Trump ha vinto e dovrà governare per i prossimi quattro anni. Ha
dichiarato che vuole cambiare tante cose, e addirittura costruire un muro al
confine con il Messico. Alcuni provvedimenti li ha già messi in pratica.
Vediamo come procederà il suo lavoro e poi commenteremo».
A Denver hai comprato per
un anno intero biglietti a persone in difficoltà. Sei un ragazzo dal cuore
d’oro?
«Mi sento una persona
fortunata, e siccome non tutti si possono permettere di acquistare un biglietto
per assistere ad una partita NBA ho cercato di rendermi utile. Con questo gesto
volevo ripagarli del loro affetto, perché senza tifosi io praticamente non sono
nessuno. Da bambino non potevo permettermi di andare a vedere una partita ma
adesso che ho questa grande opportunità voglio donare qualcosa a chi è in
difficoltà».
I tuoi genitori sono del
Senegal, hai in cantiere dei progetti benefici per i più poveri del paese?
«Voglio assolutamente
fare delle attività di solidarietà e beneficenza, sia in Francia che in
Senegal. Ho diverse idee ma non c’è ancora nulla di veramente concreto. Più in
là sicuramente cercherò di fare qualcosa soprattutto per i bambini».
Se non avessi fatto il
giocatore di basket, cosa ti sarebbe piaciuto fare?
«Proprio perché tengo
molto ai bambini e voglio aiutarli se sono in difficoltà, mi sarebbe piaciuto
fare l’assistente sociale».
E dopo la pallacanestro
cosa vorresti fare?
«Mi piacerebbe restare in
questo mondo con un ruolo da allenatore. In particolare vorrei allenare
all’università o all’high school, con cui sono molto in contatto, oppure
rimanere in Italia. Il massimo livello a cui aspiro, comunque, è l’under 20,
perché i professionisti sono molto complicati da allenare (ride!)».
Caserta,
pubblico in calo e sempre più esigente
di
Giovanni Bocciero
“Caserta città del basket”. È lo slogan che
afferma ormai da anni quanto il legame tra la città e la pallacanestro sia forte,
indivisibile. Nell’ultimo periodo questo slogan ha perso un po’ di significato,
svuotato nei fatti più che nelle parole. Perché se realmente Caserta ed il
basket fossero ancora uniti in maniera indissolubile, non si dovrebbero vedere
gli spalti del PalaMaggiò vuoti ad ogni incontro. Ci sono di certo diverse
attenuati: i risultati molto altalenanti, la lontananza del palazzo dal centro
città, le difficoltà economiche della popolazione. Ma se neppure il ritorno
dell’idolo Oscar Schmidt ha permesso
che l’impianto di Castel Morrone toccasse il sold-out, allora davvero c’è
qualcosa che non torna. Ormai è rimasto uno zoccolo duro di tifosi di vecchia
data, che acquistato regolarmente l’abbonamento ad inizio stagione, ma sembra
esser venuto meno in questi anni il cosiddetto ricambio generazionale del tifo.
Non che i giovani non ci siano, sia chiaro. È che purtroppo non provano lo
stesso attaccamento che le persone di una certa età hanno nei confronti della
squadra. Forse addirittura troppo attaccamento, dato che spesso si sfocia in
qualche episodio di poca pazienza con i fischi provenienti dalle tribune al
minimo errore. È successo contro Varese, e ad Edgar Sosa non è sceso proprio giù, tanto da mostrare il dito medio
in un raptus di pura rabbia. Contro Cremona invece, il pubblico è stato
l’autentico sesto uomo, fondamentale nel momento cruciale che ha visto la
JuveCaserta rimontare e poi vincere. È quello lo spirito con cui i casertani
dovrebbero andare a vedere la partita, ovvero sostenere la squadra sempre e
comunque, a prescindere dal risultato. Perché il PalaMaggiò deve incutere
timore agli avversari, e non caricare di pressione i propri beniamini.
Altro rinforzo per Caserta: c'è anche Berisha
di Giovanni Bocciero
La JuveCaserta ha colto l’occasione della sosta per le Final Eight di
Coppa Italia per inserire nel roster la guardia Dardan Berisha. Una scelta di mercato dovuta ovviamente all’urgenza
di aggiungere un ulteriore uomo alle rotazioni, e possibilmente che fosse
pronto per dare sin da subito un apporto alla squadra. Coach Dell’Agnello può essere contento di
questo innesto, così da riequilibrare l’assetto della formazione con Josh Bostic fermo ai box, che sta vivendo evidentemente un calo fisico e
mentale. Berisha, kosovaro di nascita ma con passaporto polacco, vanta la
giusta esperienza in campo europeo. E adesso sarà a disposizione di Caserta che
con lui vuole raggiungere i playoff. Una gran fetta del tifo bianconero ha
accolto con soddisfazione questo ingaggio perché all’ombra della Reggia si è
cresciuti con la cultura che gli slavi sono tosti e valorosi. E a lui chiedono
durezza mentale.
* per la rivista BASKET MAGAZINE
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