venerdì 10 marzo 2017

Yakhouba Diawara: tutto lavoro e tanto cuore

Yakhouba Diawara: tutto lavoro e tanto cuore

Torniamo a scoprire l'ala francese 'usato sicuro', vecchia conoscenza del nostro basket. Ragazzo umile, che non dimentica l'infanzia difficile: si sente un privilegiato, vuole aiutare i più giovani.



di Giovanni Bocciero*


CASERTA - Ragazzo umile, disponibile, che ricorda da dove viene così da vivere al meglio il suo presente e futuro. Questo è Yakhouba Diawara, ala francese alla sua sesta esperienza in Italia con la JuveCaserta. Un rinforzo ponderato, che è risultato essere decisivo sin dal suo esordio con il canestro vincente in quel di Reggio Emilia. Un grande attestato di stima da parte di coach Sandro Dell’Agnello che gli ha affidato l’ultimo tiro, e dei nuovi compagni di squadra che hanno riposto subito fiducia in lui. Già bene integrato nel gruppo, l’esperienza maturata ad un discreto livello in NBA (187 presenze con una media di 14 minuti e 3.5 punti) potrà sicuramente aiutare Caserta ad accedere ai playoff che mancano dal 2009/10.

Un cugino nel Bordeaux e il Diawara del Napoli è un suo lontano
parente. Lui disse no al calcio perché d'inverno faceva troppo freddo
Da bambino hai iniziato a giocare a pallamano, poi invece hai cambiato sport. Come ti sei avvicinato al basket?
«Sono cresciuto nel periodo più esaltante di Michael Jordan, che ho visto per la prima volta nel ‘93. In quegli anni la pallacanestro si è diffusa in tanti playground, ed ho finito per innamorarmi di questo bellissimo sport».
Qual è l’aneddoto che ricordi con più piacere dei tuoi inizi col basket?
«Durante la prima partita che ho giocato a Parigi ho messo a segno un paio di canestri in fila, e questo ha fatto entusiasmare pubblico e compagni. Mi è piaciuta la loro reazione e l’ho trovata così pazzesca da rendermi felice».
Ti piace molto anche il calcio, ed hai un cugino che giocava da professionista in Francia?
«Ho giocato anche a calcio ma ho lasciato siccome d’inverno faceva freddo e preferivo stare al coperto e al caldo. Ho un cugino che ha giocato al Bordeaux, ma anche il centrocampista del Napoli Amadou Diawara è un mio parente alla lontana. Dovrei chiedere a mia mamma per risalire alla parentela (ride!)».
Quando giocavi da bambino ti immaginavi già di diventare un giocatore professionista?
«Ho iniziato a giocare per divertimento, in maniera tranquilla. Poi con il passare degli anni ho visto che giocavo bene, ho iniziato a lavorare tanto dopo la scuola, e allora mi sono detto perché no! A diciotto anni ho vinto l’europeo con Tony Parker e mi sono impegnato sempre di più».
Ti sei poi trasferito negli Stati Uniti, giocando al college prima a Southern Idaho e poi a Pepperdine. A quel punto la NBA era un tuo sogno?
«Sicuramente con l’esperienza a Pepperdine, perché ho avuto la possibilità di giocare in Division I contro squadre come UCLA, USC, Gonzaga, e c’erano tanti coach e scout che venivano a vedere le partite. Ricordo che in un match casalingo proprio contro Gonzaga c’era Pat Riley sulle tribune. A quel punto ho iniziato a pensare seriamente alla NBA».
La prima esperienza in Italia è stata alla Fortitudo Bologna nel 2006. Arrivasti con la fama di essere un pessimo tiratore per un problema alla vista, eppure registrasti il 54% dall’arco. Cosa ricordi?
«Quando arrivai a Bologna tutti dicevano che non tiravo, e che ero solo un difensore. Io volevo rispondere con i fatti. Tiravo prima, durante e dopo l’allenamento, tutti i giorni. Sono stati quattro mesi bellissimi che mi hanno fatto innamorare del basket italiano per il suo gioco ed il suo calore che non si trovano in Francia e neppure nelle arene dell’NBA».
Oltretutto le tifoserie di Fortitudo e JuveCaserta sono gemellate?
«È una cosa fantastica. Anche con Varese corrono buoni rapporti, e sono felice per questo perché si tratta di squadre dove ho lasciato un pezzo di cuore e di cui sono un accanito tifoso».
"Dicevano che non tiravo mai: ho passato ore su ore in palestra per
non essere considerato più soltanto un buon difensore"
Dalla prima esperienza italiana esattamente 11 anni fa, ad oggi che sei a Caserta, come è cambiato il tuo gioco, il tuo approccio ad un match?
«Certamente adesso ho più esperienza. Ad esempio a Brindisi ho fatto un anno così così dove potevo fare di più. Poi a Varese è andata meglio, da semplice esterno ho iniziato anche a giocare da ala forte. Anche qui a Caserta gioco spesso da lungo, e seppur preferisco giocare da esterno sono pronto a sacrificarmi per la squadra. L’obiettivo deve essere quello di riportare la JuveCaserta ai playoff».
Hai giocato con Carmelo Anthony e Dwayne Wade. Com’è giocare con superstar di quel calibro?
«Ho giocato anche con il mio idolo Allen Iverson. Lavorare con dei marcatori ed atleti incredibili come loro, tutti i giorni, è un qualcosa di fantastico. Ho cercato di apprendere tanto e far tesoro dei loro insegnamenti».
Ormai conosci molto bene l’Italia. C’è qualcosa in particolarmente che ti piace?
«L’Italia è decisamente il mio paese preferito. Amo la lingua, il cibo, l’arte, il pubblico. Sono francese ma amo più l’Italia che la Francia».
C’è un film - Benvenuti al Sud - che racconta le distinzioni tra il Nord ed il Sud Italia. Tu hai giocato in tante e diverse città. Esistono davvero queste differenze di comportamento tra le persone?
«Credo che qualche differenza ci sia. Al nord le persone sono più chiuse, lavorano duramente e si vestono più chic. Al sud invece le persone sono aperte, solari, alla portata, e lavorano con molta più tranquillità. Io però non faccio distinzioni perché mi piacciono sia l’una che l’altra».
Sei della periferia parigina - Tremblay precisamente -, ed hai avuto un’infanzia difficile. Come sei arrivato ad essere l’uomo che sei oggi?
«Devo ringraziare la mamma e il papà, che hanno saputo crescermi. Se oggi sono così la colpa è unicamente loro (ride!). Sono stato davvero fortunato ad avere due genitori come loro, così come i miei fratelli e sorelle che mi hanno aiutato. Li ringrazio tutti i giorni e non lo finirò mai di fare».
Durante il periodo di inattività hai lavorato molto da solo, cercando la miglior forma fisica. È un po’ la metafora della tua vita: lavorare duro per ottenere i risultati?
«Senz’altro. Il mio corpo è il mio lavoro, e quindi se non lo curo non posso pensare di giocare, e di farlo bene. Seguendo un campione come Kobe Bryant, che a fine stagione non smetteva mai di lavorare, mi ha fatto capire che per ambire al massimo e allungare quanto più possibile la carriera da giocatore non devi mai fermarti. Mi reputo un professionista, e dunque devo sfruttare tutte le opportunità che mi si presentano».
"Con la Nba ho realizzato il sogno. Michael Jordan il mio mito, da Kobe
ho appreso la cultura del lavoro e ho giocato con Iveron"
Parigi è la tua città, come hai vissuto gli attentati terroristici e cosa ne pensi di questa situazione che sta mettendo in ginocchio tutto il mondo?
«Mi ha fatto molto male. È stato un momento molto difficile per tanti miei amici. Purtroppo non è stata colpita solo Parigi, ma anche Londra, Istanbul, Berlino, Bruxelles. Non possiamo certamente chiuderci in casa e non uscire più, facendoci condizionare. Il mondo purtroppo sta andando così, ma chiunque deve continuare a vivere la propria vita pregando che questi attentati finiscano quanto prima».
La Francia è una società multietnica, testimoniata dalla stessa nazionale di basket. In Italia è all’ordine del giorno il problema immigrazione. Cosa ti senti di dire?
«È piuttosto difficile perché il tema dipende molto dalla politica. In Francia ci sono molti abitanti di origine algerina, marocchina, senegalese e di tanti altri paese africani che appartenevano alle ex colonie francesi. Molti di loro sono arrivati in Francia per trovare lavoro. In Italia credo sia un po’ più difficile, e le poche cose che so le ho apprese dalla televisione. Spero solo che tutti possano essere felici».
Vivi negli Stati Uniti - ha casa a Miami -. Cosa pensi del nuovo presidente Donald Trump e come vedi il futuro in America?
«Trump ha vinto e dovrà governare per i prossimi quattro anni. Ha dichiarato che vuole cambiare tante cose, e addirittura costruire un muro al confine con il Messico. Alcuni provvedimenti li ha già messi in pratica. Vediamo come procederà il suo lavoro e poi commenteremo».
A Denver hai comprato per un anno intero biglietti a persone in difficoltà. Sei un ragazzo dal cuore d’oro?
«Mi sento una persona fortunata, e siccome non tutti si possono permettere di acquistare un biglietto per assistere ad una partita NBA ho cercato di rendermi utile. Con questo gesto volevo ripagarli del loro affetto, perché senza tifosi io praticamente non sono nessuno. Da bambino non potevo permettermi di andare a vedere una partita ma adesso che ho questa grande opportunità voglio donare qualcosa a chi è in difficoltà».
I tuoi genitori sono del Senegal, hai in cantiere dei progetti benefici per i più poveri del paese?
«Voglio assolutamente fare delle attività di solidarietà e beneficenza, sia in Francia che in Senegal. Ho diverse idee ma non c’è ancora nulla di veramente concreto. Più in là sicuramente cercherò di fare qualcosa soprattutto per i bambini».
Se non avessi fatto il giocatore di basket, cosa ti sarebbe piaciuto fare?
«Proprio perché tengo molto ai bambini e voglio aiutarli se sono in difficoltà, mi sarebbe piaciuto fare l’assistente sociale».
E dopo la pallacanestro cosa vorresti fare?
«Mi piacerebbe restare in questo mondo con un ruolo da allenatore. In particolare vorrei allenare all’università o all’high school, con cui sono molto in contatto, oppure rimanere in Italia. Il massimo livello a cui aspiro, comunque, è l’under 20, perché i professionisti sono molto complicati da allenare (ride!)».




Caserta, pubblico in calo e sempre più esigente

di Giovanni Bocciero

“Caserta città del basket”. È lo slogan che afferma ormai da anni quanto il legame tra la città e la pallacanestro sia forte, indivisibile. Nell’ultimo periodo questo slogan ha perso un po’ di significato, svuotato nei fatti più che nelle parole. Perché se realmente Caserta ed il basket fossero ancora uniti in maniera indissolubile, non si dovrebbero vedere gli spalti del PalaMaggiò vuoti ad ogni incontro. Ci sono di certo diverse attenuati: i risultati molto altalenanti, la lontananza del palazzo dal centro città, le difficoltà economiche della popolazione. Ma se neppure il ritorno dell’idolo Oscar Schmidt ha permesso che l’impianto di Castel Morrone toccasse il sold-out, allora davvero c’è qualcosa che non torna. Ormai è rimasto uno zoccolo duro di tifosi di vecchia data, che acquistato regolarmente l’abbonamento ad inizio stagione, ma sembra esser venuto meno in questi anni il cosiddetto ricambio generazionale del tifo. Non che i giovani non ci siano, sia chiaro. È che purtroppo non provano lo stesso attaccamento che le persone di una certa età hanno nei confronti della squadra. Forse addirittura troppo attaccamento, dato che spesso si sfocia in qualche episodio di poca pazienza con i fischi provenienti dalle tribune al minimo errore. È successo contro Varese, e ad Edgar Sosa non è sceso proprio giù, tanto da mostrare il dito medio in un raptus di pura rabbia. Contro Cremona invece, il pubblico è stato l’autentico sesto uomo, fondamentale nel momento cruciale che ha visto la JuveCaserta rimontare e poi vincere. È quello lo spirito con cui i casertani dovrebbero andare a vedere la partita, ovvero sostenere la squadra sempre e comunque, a prescindere dal risultato. Perché il PalaMaggiò deve incutere timore agli avversari, e non caricare di pressione i propri beniamini.




Altro rinforzo per Caserta: c'è anche Berisha

di Giovanni Bocciero

La JuveCaserta ha colto l’occasione della sosta per le Final Eight di Coppa Italia per inserire nel roster la guardia Dardan Berisha. Una scelta di mercato dovuta ovviamente all’urgenza di aggiungere un ulteriore uomo alle rotazioni, e possibilmente che fosse pronto per dare sin da subito un apporto alla squadra. Coach Dell’Agnello può essere contento di questo innesto, così da riequilibrare l’assetto della formazione con Josh Bostic fermo ai box, che sta vivendo evidentemente un calo fisico e mentale. Berisha, kosovaro di nascita ma con passaporto polacco, vanta la giusta esperienza in campo europeo. E adesso sarà a disposizione di Caserta che con lui vuole raggiungere i playoff. Una gran fetta del tifo bianconero ha accolto con soddisfazione questo ingaggio perché all’ombra della Reggia si è cresciuti con la cultura che gli slavi sono tosti e valorosi. E a lui chiedono durezza mentale.





* per la rivista BASKET MAGAZINE

Nessun commento:

Posta un commento