giovedì 16 febbraio 2017

La storia siamo noi: Oscar, l'uomo che rifiutò la NBA

La storia siamo noi: Oscar, l'uomo che rifiutò la NBA

Scelto nel 1984, disse no ai Nets per non rinunciare alla Nazionale brasiliana. Chiamato da Tanjevic, con i suoi canestri scrisse la leggenda della JuveCaserta.



di Giovanni Bocciero*


CASERTA - Lo scorso 18 dicembre il leggendario Oscar Daniel Bezerra Schmidt è ritornato a Caserta dopo ben tredici anni dalla sua ultima visita. Quella volta, l’8 dicembre del 2003, lo faceva per dire ufficialmente addio alla pallacanestro giocata con l’“Oscar Game”, kermesse alla quale parteciparono tanti ex atleti con cui il bomber brasiliano ha giocato insieme o da avversario. A distanza di tredici anni, con una battaglia vinta contro il tumore al cervello non del tutto archiviata, è ritornato a calcare il legno del PalaMaggiò.
Questa volta però, non c’erano compagni o avversari ad attenderlo, la scena è stata tutta per lui. Un autentico “Oscar Day” in cui l’idolo bianconero degli anni ’80 ha potuto salutare il suo pubblico, quello composto da persone con i capelli bianchi che hanno vissuto gli anni d’oro del campione carioca; ma anche dai più giovani che magari di Oscar giocatore hanno visto poco o nulla, ma che attraverso i ricordi di amici e parenti oppure tramite immagini piuttosto datate sanno tutto sulla sua vita cestistica.
Primatista mondiale con 49.737 punti segnati, per tutti è Mao Santa.
"Frutto dell'allenamento, il talento non basta". (Foto Elvio Iodice)
Oscar può essere definito senza troppa presunzione un vero e proprio “eroe dei due mondi”, anche se in Italia non è riuscito ad alzare lo stesso numero di trofei che invece lo hanno reso celebre sin da giovanissimo in patria. Successi frutto unicamente della sua filosofia, ovvero quella che per arrivare a toccare i più alti livelli della pallacanestro bisogna lavorare duramente e soprattutto quotidianamente in palestra. Bisogna ripetere, ripetere e ancora ripetere gesti e movimenti affinché questi diventino così scontati e naturali da farli come se si bevesse un bicchiere d’acqua. Da questo punto di vista la Mao Santa è stato un grande esempio che tantissimi giovani cestisti dovrebbero prendere come modello se vogliono sfondare come giocatori professionisti.
Il campione che “piangeva e segnava”, così lo definì coach Boscia Tanjevic quando indicò il rinforzo per la sua JuveCaserta al general manager Giancarlo Sarti. Perché Oscar prima ancora che un atleta era un uomo dal grande sentimento, che faceva ciò che più gli piaceva con passione e amore. Un amore viscerale che lo ha portato a rifiutare addirittura le avance della NBA e l’offerta milionaria del Real Madrid per restare a Caserta, al fianco del Cavaliere Giovanni Maggiò.
Nel primo caso il brasiliano, al pari di Drazen Dalipagic, Dino Meneghin e qualche altro campione del passato, anche recente come Dejan Bodiroga, è da considerarsi a tutti gli effetti uno dei più grandi a non aver mai calcato i palcoscenici della lega professionistica americana. E giusto per rendere l’idea, già dal 1984 si sarebbe potuto iniziare a parlare di un cecchino pazzesco che tirava e soprattutto segnava tiri incredibili e da distanze siderali alla Stephen Curry.
E se invece si fosse concretizzato il suo passaggio alle merengues, si sarebbe costituita una delle coppie più illegali mai viste su di un parquet quantomeno del Vecchio Continente, con lui, “O Rey do triple”, ed “il Mozart dei canestri”, Drazen Petrovic. Non a caso i due si esibirono da avversari in una delle partite che hanno fatto la storia della pallacanestro mondiale, la finale di Coppa delle Coppe tra Real Madrid e JuveCaserta nella quale in due segnarono la bellezza di 106 punti. Quel match del 1989 sarebbe stato, però, il preludio alla separazione tra Oscar e Caserta. Un divorzio mai digerito dal fuoriclasse che a distanza di anni ci tiene ancora a sottolineare come sia stato tradito da coloro con i quali condivideva lo spogliatoio.
"A Maggiò e Tanjevic devo tutto. Caserta mi ha trasformato in meglio anche
come persona: indimenticabile". (Foto Elvio Iodice)
L’uomo, il precursore, l’amore e la devozione. Perché, appunto, lui non era un qualsiasi campione giunto soltanto per vincere delle partite. Con Caserta e per Caserta sarebbe, forse, rimasto a vita a giocare, dopotutto lui si era integrato sin da subito nella piccola realtà del Mezzogiorno d’Italia, era diventato uno scugnizzo proprio come i vari Nando Gentile ed Enzo Esposito, e a ritmo di samba aveva fatto innamorare e si era allo stesso tempo innamorato di una intera popolazione, della quale adesso più che mai è parte integrante avendo avuto la cittadinanza onoraria.
Oscar aveva trascinato con la sua leadership ed il suo carisma la JuveCaserta dall’A2 sino al tetto d’Europa, facendola competere alla pari con i più blasonati club del contesto nazionale quanto di quello continentale. Un’avventura che lo ha portato in un certo senso ad essere eletto a simbolo di un riscatto che va ben oltre il solo ambito sportivo, ma che ha toccato evidentemente anche quello sociale. Un atleta che partito da San Paolo è diventato leggenda all’ombra della Reggia.

A Caserta mancava dall’8 dicembre del 2003, quando ha disputato la partita d’addio al basket giocato. Rispetto a quella data ha provato delle emozioni differenti nel rivedere la città, i tifosi, gli amici?
«Sì, questa volta è stato tutto molto differente. Sono stato con la famiglia Basile tutti i giorni, ed ho potuto vedere, toccare, sentire quanto loro mi vogliono bene. È stato bello riabbracciarli, così come riabbracciare tutta Caserta».
Al pubblico casertano ha detto che avrebbe voluto tirare ancora una volta ai canestri del PalaMaggiò. Ma nel 2003 è stata l’ultima volta che ha indossato le scarpette da basket?
«Sì, è stato proprio così. Io ritengo che la pallacanestro sia una cosa seria, non un gioco, per questo non va affrontata con sufficienza».
Ha ricevuto la cittadinanza onoraria e l’inserimento nella Hall of Fame italiana. Sono riconoscimenti che un po’ già sentiva di possedere seppur non ufficialmente?
«Certo che sì. Io già mi sentivo un cittadino casertano a tutti gli effetti, mentre invece l’inserimento nell’Hall of Fame è arrivata con un po’ di ritardo, ma l’accetto con grande orgoglio e rispetto».
Chi era Oscar Schmidt prima che arrivasse a Caserta, e quanto hanno cambiato la sua vita i tanti anni trascorsi in Italia?
«Sono arrivato a Caserta che ero appena sposato con la mia Cristina, ho imparato la lingua, ho avuto due figli bellissimi, e me ne sono andato via dall’Italia che ero completamente tutta un’altra persona».
Sapendo che lei tiene moltissimo alla sua famiglia, si può dire che il Cavaliere Maggiò e coach Tanjevic siano state le due persone più importanti della sua vita?
«Assolutamente sì, gli devo davvero tanto, così come vale per alcuni amici brasiliani».
Quando giocava finiva sempre l’allenamento tirando centinaia di volte a canestro, è lì che si è costruito il suo talento?
«Senz’altro, perché io credo nel duro allenamento e non nel talento così, donato per mano divina. Un intero giorno passato in palestra dice tutto quello che sei e soprattutto cosa puoi dare e diventare».
49.737 punti realizzati, nessuno mai come lei, ancora oggi. Si sente un po’ il miglior giocatore di sempre, irraggiungibile, o crede che altri siano i veri campioni?
«No, certo che non mi sento irraggiungibile. Però c’è da dire che, giocando per tanti anni, va a finire che proprio come successo a me segni tanti punti».
"Il tiro da tre punti non è mai un abuso. Oggi c'è una squadra, i Warriors,
che gioca come ai miei tempi". (Foto Elvio Iodice)
Il tiro da tre punti era la sua specialità, ed oggi spesso ci si dibatte sulla sua troppa esagerazione. Lei cosa ne pensa a riguardo, si abusa troppo delle triple?
«Oggi c’è una squadra in NBA come Golden State che gioca esattamente come si giocava durante il periodo della mia generazione, e io posso dire soltanto belle cose su di loro, quindi non credo si abusi del tiro da tre».
È stato scelto al Draft del 1984 dai New Jersey Nets, eppure non ha mai giocato in NBA. Perché non c’è voluto andare o perché non è nata l’occasione?
«Se avessi giocato una sola partita nella NBA, non avrei potuto giocare mai più con la nazionale brasiliana, che sentivo mia, quindi sono stato costretto a fare una scelta».
Qualcosa lo ha confessato adesso, ma le è mai pesato il giudizio a Caserta che con lei in squadra non si vinceva perché era ingombrante?
«Sì, tantissimo. Bisogna però ricordare che sono venuto a Caserta dopo aver vinto tutto nella pallacanestro, tutti i trofei disponibile a cui ho partecipato con il Sírio. Boscia Tanjevic mi scelse dopo che perse la Coppa Intercontinentale contro di me e la mia squadra. Ciò di cui mi hanno accusato è soltanto la scusa di coloro che non sapevano giocare bene a pallacanestro».
Ha giocato la sua ultima partita ufficiale all’età di 45 anni. Questo testimonia tutto l’amore e la passione che prova per la pallacanestro?
«Certo che sì. Si tratta di tantissimo tempo, ed io sono stato fortunato ad aver avuto la possibilità di praticare la pallacanestro sempre ad altissimo livello».
I suoi ex compagni di squadra Esposito e Dell’Agnello sono diventati allenatori di successo. Lei se lo sarebbe mai immaginato?
«Certamente, perché uno che ha passato la vita come giocatore possiede tutto per diventare un buon allenatore».
Parliamo della famiglia Gentile. Ha seguito le ultime vicende di Alessandro e Stefano, cosa pensa delle carriere che stanno avendo i figli Nando?
«È difficile avere i figli che vogliono giocare a pallacanestro, soprattutto se si ha un padre come Nando che è stato un vero crack. Spero che possano risolvere per bene i loro diversi problemi ed imitare il papà in campo».
Lei spesso si lasciava andare alle lacrime in campo, dimostrando di essere un campione sincero, forse troppo emotivo. Ma ha mai pensato di allenare?
«Oggi faccio conferenze motivazionali per le imprese e nelle scuole. Sinceramente non penso che allenerò… per adesso».
Lei ha dovuto lottare contro il tumore. Oltre ad una leggenda del basket è diventato anche un esempio umano da seguire?
«Non mi va di essere ricordato per questo. Cioè, ho avuto una vita bellissima, se Dio mi volesse adesso non posso farci niente. Non per questo posso permettermi di piangere, devo proseguire con la cura, tenermi sotto controllo. Questo è un obbligo».
Infine, c’è un giocatore in giro per il mondo che le assomiglia, in cui lei rivede un Oscar Schmidt per modo di giocare e/o per il carattere?
«Ognuno è sé stesso, e non vedo giocatori che mi assomigliano. Da giovane ho avuto degli idoli, alcuni che mi assomigliavano e altri che neanche andavano vicini a come giocavo. Sto parlando di Ubiratan “Bira” Maciel, Bob Morse e Larry Bird».
Ha chiuso la sua carriera dopo 1289 partite e 42.044 punti segnati (403 e 13.957 in Italia, secondo dietro Antonello Riva con 14.423 punti che ha giocato 792 gare). A questi numeri aggiunge le 326 partite e i 7.693 punti segnati con la maglia oroverde del Brasile per un totale di 1615 gare disputate e, appunto, 49.737 punti: record mondiale assoluto.




* per la rivista BASKET MAGAZINE

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