mercoledì 22 gennaio 2020

Cultura sportiva! Dove e come si insegna?

Cultura sportiva!
Dove e come si insegna?


La tradizione sportiva italiana è lunga quasi quanto la sua storia. In quasi tutti gli sport, sia individuali che di squadra, l’Italia può vantare numerosi successi. Tuttavia la tradizione e le vittorie spesso non sono accompagnate da atteggiamenti consoni ad una cultura sportiva.
Questo dislivello tra successi e comportamenti ha un grande responsabile nella mancanza di un programma politico sportivo che comprenda normative adatte e mirate a sviluppare la cultura dello sport, che ha radicato nelle persone che praticano attività agonistiche o che semplicemente le seguono una visione distorta di ciò che è realmente lo sport e soprattutto di come lo si dovrebbe vivere.

Cos’è la cultura? La cultura è un concetto ampio e dalle diverse sfaccettature. Il suo significato lessico è “insieme delle conoscenze relative a una particolare disciplina”. La cultura è quindi sapere. In sociologia, invece, per cultura si intende “l’insieme dei valori, simboli, modelli di comportamento e attività materiali che caratterizzano il modo di vita di un gruppo sociale”. Quindi la cultura è anche valori. E grazie appunto al sapere e ai valori la cultura è simile ad un ponte fra ciò che è l’uomo e ciò che può diventare. Quindi la cultura è anche potenzialità. Ma la cultura è anche il prodotto di un processo di apprendimento e non qualcosa di innato. Pensiamo all’incontro fra culture diverse. Insomma la cultura è anche costruzione.

Lo sport è cultura? Lo sport possiede senz’altro tutti questi elementi: sapere, valori, potenzialità e costruzione. Sapere: conoscere il movimento fisico, gli stili di vita sani, le regole di uno sport. E fa parte del sapere anche imparare a conoscere se stessi e gli altri attraverso lo sport. Platone diceva che “si può scoprire di più una persona in un’ora di gioco che in un anno di conversazione”. Valori: impegno, divertimento, coraggio, solidarietà, entusiasmo, salute, forza, rispetto delle regole e degli altri, gioco di squadra, vittoria, miglioramento, sono solo alcuni dei valori esistenti. A seconda del nostro sistema di valori le nostre azioni potranno essere molto diverse. Potenzialità: allo sport si conferisce una valenza pedagogica particolare. Le Nazioni Unite nel 2005 hanno promosso l’Anno Internazionale dello Sport e dell’Educazione Fisica che ha affermato che lo sport è “componente essenziale della nostra società perché trasmette le regole fondamentali della vita sociale ed è portatore di valori educativi”. Costruzione: Nelson Mandela diceva che “lo sport ha il potere di cambiare il mondo, di suscitare emozioni, di ricongiungere le persone, di risvegliare la speranza dove prima c’era solo disperazione”. Ad avvalorare ciò c'è un dato: aderiscono al Comitato Olimpico Internazionale 205 federazioni nazionali, mentre alle Nazioni Unite solo 192 paesi. Queste qualità, con regole e comportamenti di tutti gli attori coinvolti, possono contribuire a formare quella che possiamo chiamare cultura sportiva.

In Italia lo sport è considerato cultura? Attraverso lo sport si può educare un Paese. Gli antichi greci lo consideravano una palestra di vita, mentre per gli americani è il mezzo per il riscatto sociale. In Italia è visto come un divertimento, un passatempo, una scusa per evadere dai problemi quotidiani. Tutto nobile, tutto giusto, tutto consentito. L'aspetto negativo è quando una manifestazione sportiva diventa la valvola di sfogo delle proprie frustrazioni.

Dove si apprende la cultura sportiva? La risposta a questa domanda è la stessa di dove si apprende la cultura in generale. A scuola, ma anche dagli sportivi stessi. E soprattutto nelle ore di educazione fisica. “Educazione”, appunto. Le domande che forse dovremmo porci sono: quanti di noi sono stati davvero educati dalle ore di sport a scuola? Quanti possono affermare di aver appreso lezioni di vita utili per la quotidianità? Lo sport è uno dei massimi veicoli di aggregazione sociale, insegna il sacrificio e il rispetto che dovrebbero essere alla base di ogni società.

Lo sport è cultura. Secondo il Libro bianco dello Sport 2007 della Commissione Europea, lo sport ha quattro dimensioni: agonistico, preventivo, educativo, ricreativo. Oltre a migliorare la salute dei cittadini, ha una dimensione educativa e svolge un ruolo sociale, culturale e ricreativo. Pensate all’Universiade che solo lo scorso luglio si è svolta a Napoli e in tutta la Campania. Una metafora di università e stadio, il binomio perfetto di cultura e sport. In Italia il problema della mancanza di cultura sportiva si traduce nell’avversario che non è un rivale, ma un nemico; e si va allo stadio per offendere e non per sostenere. Lo sport è davvero cultura perché infondo non è solo un gioco, ma un vero e proprio stile di vita.

Tre sono le espressioni tipiche della condizione umana secondo la filosofia: il gioco, il rito e il mito. Possiamo definire lo sport la versione moderna e organizzata del gioco. Al gioco succede il rito, come per la religione, che è rappresentato da una gara. Il gioco e il rito sono le forme culturali legate all’azione, al corpo, alla prestazione. Il terzo stadio è il mito, pensate all’odierno idolo sportivo che non rispecchia lo stile di vita del popolo, perché tende ad imporre il proprio modello a tutte le altre persone. Come si veste, cosa utilizza, dove va, tutto diviene fenomeno da seguire. E questo non esclude neppure i comportamenti fuori e dentro il campo. C’è dunque il rischio, da parte dello sport, di contribuire al fenomeno della idolatria, così da ritrovarci una società riflesso dello sport e non lo sport riflesso della società.

Nello sport di alta prestazione, che è poi quello che maggiormente influenza lo spettatore sportivo, stanno contribuendo alla sua continua evoluzione l’impatto economico della sport industry, l’innovazione tecnologica e il peso dei media, che sono arrivati, ad esempio, a cambiare a seconda delle proprie esigenze le stesse regole dello sport. Sport e business sono strettamente legati verso il successo ad ogni costo. Lo sport, oggi, premia la cultura del successo, che sacrifica l’elemento del gioco in favore del risultato, che va raggiunto a qualunque costo, anche e soprattutto per gli interessi economici ad esso legati.

È dunque fondamentale saper riconoscere la differenza tra la vittoria, che deve essere perseguita e rincorsa fino alla fine, e la sconfitta, che deve essere accettata come parte integrante del gioco. Deve essere valutata la prestazione e non il risultato. Si tratta di mentalità ed educazione. Lo sport è uno strumento importante per accrescere e indirizzare le persone verso determinati comportamenti. E non stiamo parlando del futuro del giovane sportivo, ma del futuro del giovane cittadino.

La formazione di una cultura sportiva mira a sviluppare una mentalità vincente, non solo un vincitore da podio o da medaglia d’oro. Chi riesce a sviluppare una tale mentalità impara dall’esperienza sportiva a conoscere se stesso, i propri limiti e le proprie potenzialità. Acquisisce una capacità di apprendimento che gli permette di perseguire un miglioramento continuo. Dovremmo quindi ridefinire il concetto di successo e di vittoria domandandoci “come abbiamo corso?”, e non “come siamo arrivati?”. Vincere allora può voler significare non solo essere il migliore, ma anche fare del proprio meglio.

Bisogna essere spinti dal fair play, che non è una regola come le altre. Il fair play impone il rispetto delle regole del gioco ma anche delle regole non scritte e universali dell’umanità. Il fair play non vuole mai una vittoria a qualsiasi prezzo, bensì vuole il rispetto per l’avversario, i compagni e l’arbitro. E il fair play è ciò che unisce il dilettante e il professionista, che sull’aspetto morale devono essere uguali in tutto e per tutto.

Tutti conoscono le battute ciniche “vincere non è importante. È l’unica cosa” o “il secondo è il primo degli ultimi”. Forse però è meno nota la definizione “successo è il participio passato del verbo succedere”. Così l’orgoglio viene ridimensionato. Le sconfitte sono sicuramente più numerose delle vittorie. Allora uno dei valori educativi fondamentali dello sport è quello di imparare a perdere con grazia.

È utopia sognare una cultura sportiva? Forse il semplice fatto di sognarla è già un primo passo verso una sua più ampia diffusione. Non a caso il giornalista uruguaiano Eduardo Galeano diceva, riguardo all’utopia: “L’utopia è come l’orizzonte. Mi avvicino di due passi, si allontana di due passi. Faccio dieci passi e si sposta di dieci passi. Per quanto cammini, mai lo raggiungerò. Dunque a cosa serve l’utopia? A camminare”.

Il giramondo - Mekel...angelo, il re degli assist

Cresciuto nelle giovanili del Maccabi, ha poi vinto per due volte il titolo israeliano soffiandolo al club di Tel Aviv
Mekel...angelo, il re degli assist
Ha giocato in sei Paesi diversi, due produttive stagioni in Ncaa, due anni in Nba



di Giovanni Bocciero*



UN AUTENTICO GIRAMONDO che anche attraverso la pallacanestro ha potuto dare sfogo ad uno dei suoi maggiori hobby, quello di viaggiare. Gal Mekel da Ramat HaSharon, classe 1988, ha militato in tanti campionati diversi e vissuto esperienze così differenti l’una dall’altra che lo si potrebbe quasi definire un cittadino del mondo. Ma non mettente in dubbio il suo attaccamento per la Nazionale, perché lui è un israeliano orgoglioso.
Cresciuto in una famiglia molto numerosa (ha quattro fratelli e due sorelle, ndr), sin da adolescente alla Alliance High School di Tel Aviv ha praticato diversi sport, come il basket ed il tennis. Il primo è poi diventato il suo lavoro, il secondo solo un passatempo estivo. La scelta di dedicarsi completamente alla pallacanestro è stata una normale conseguenza dei primi successi raggiunti con la palla a spicchi tra le mani. Mettendosi in mostra prima tra le fila dell’Hapoel Tel Aviv e poi dell’A.S. Ramat HaSharon ha attirato l’attenzione del colosso israeliano Maccabi, col quale a 17 anni ha messo in bacheca il titolo del campionato giovanile 2005/06. Contemporaneamente iniziava ad essere anche un perno della formazione under 18 dell’Israele, con la quale al prestigioso torneo Albert Schweitzer si è fatto conoscere al mondo intero. Dall’altra parte dell’oceano ha fatto clamore la sua prestazione da 29 punti e 6 assist realizzata contro l’equipe statunitense, e così diversi college si sono fatti avanti offrendogli una borsa di studio. Providence, Southern California ma soprattutto Wichita State. Ha accettato l’offerta di quest’ultima, e con gli Shockers ha disputato due stagioni in Ncaa che sono state altamente formative in ambito sociale, culturale e cestistico. Non a caso ancora oggi la reputa una dei momenti decisivi della sua carriera. «La decisione di andare a giocare in un college americano - ha recentemente dichiarato Mekel in una intervista -, dopo aver militato nelle giovanili del Maccabi, credo sia stato il modo migliore per attenuare l’impatto nel passaggio dalle giovanili al professionismo. Oltre ad essere stata una grande esperienza, personalmente mi ha molto aiutato e credo che per chiunque sia una scelta da fare».

UN RAGAZZO INCONTENTABILE. In oltre dodici anni di carriera ha giocato in sei paesi diversi perché essendo uno che non si accontenta facilmente spesso e volentieri ha deciso di cambiare casacca anche a stagione in corso. Lo ha fatto per avere maggiore spazio ma anche per accettare sfide che in pochi si sarebbero sognati di affrontare. Come quando appena ritornato dall’esperienza negli Stati Uniti ha richiesto in ben due circostanze di essere ceduto alla dirigenza del Maccabi Tel Aviv. Era insofferente all’idea di giocare poco e sapeva di poter dare tantissimo. Così la società lo ha prestato all’Hapoel Gilboa, e lì ha praticamente fatto sfracelli. Nel 2009 ha vinto il premio di giovane promessa del campionato israeliano, mentre nel 2010 ha trascinato la squadra al titolo nazionale battendo in finale proprio il Maccabi, con cui aveva iniziato la stagione. Un anno dopo, pur senza riuscire a ripetersi col Gilboa ha vinto il premio di Mvp del campionato.
Re degli assist, Gal Mekel un playmaker di valore internazionale
A 23 anni è arrivato per la prima volta in Italia, a Treviso, e dopo una stagione sembrava essere arrivato il momento giusto per provare a solcare di nuovo l’oceano. C’era stato un abboccamento con gli Utah Jazz, ma poi ha deciso di firmare con il Maccabi Haifa e miglior scelta non poteva fare. La squadra era ambiziosa e Mekel si è rivelato la ciliegina sulla torta. Da incorniciare la sua prestazione da 21 punti e 7 assist che ha fatto registrare nella finale del campionato ancora contro il Maccabi, che è valsa titolo e di nuovo premio di Mvp. La maggior parte dei buoni giocatori israeliani giocano almeno qualche anno col blasonato Maccabi di Tel Aviv, lui invece si è rivelato una sorta di nemico pubblico. «Ho sempre voluto giocare per squadre che mi dessero fiducia - ha continuato a rivela Mekel -. Non accade spesso che il Maccabi non vinca il campionato israeliano, ed è stato incredibile batterlo due volte con due squadre diverse. È stato qualcosa di veramente fantastico, che ha dato speranza agli altri giocatori che il Maccabi non è l’unico posto dove giocare e che ci sono altri ottimi club in Israele. Purtroppo a volte le cose nella vita semplicemente non funzionano, e il destino ha voluto che io e il Maccabi non fossimo fatti l’uno per l’altra».
Dopo l’impresa con il Maccabi Haifa è approdato in Nba diventando il secondo giocatore israeliano di sempre a giocare nel campionato statunitense dopo Omri Casspi. Prima ha indossato la casacca dei Dallas Mavericks e poi quella dei New Orleans Pelicans. Ma purtroppo nella lega americana non gli è andata bene, e così nel febbraio del 2015 è ritornato in Europa per vestire prima la maglia dei russi del Nizhny Novgorod e poi quella dei serbi della Stella Rossa. A gennaio del 2016 si è trasferito di nuovo, firmando per la terza volta con il Maccabi Tel Aviv, con cui, questa volta, ha vinto la Coppa d’Israele nel 2016 e nel 2017. È stato poi ingaggiato dal Gran Canaria, l’anno dopo dallo Zenit San Pietroburgo, e l’estate scorsa è tornato in Italia.

NUOVI E VECCHI RECORD. Da come si evince, la carriera di Mekel è stata segnata da alcune prestazioni che ne hanno tracciato il percorso di crescita. Da israeliano orgoglioso ha sempre risposto presente alla chiamata della Nazionale disputando quattro edizioni dell’Europeo e venendo insignito nell’ultima competizione del grado di capitano. «Abbiamo una grande tradizione - ha dichiarato il giocatore -, e per me rappresentare la mia nazione è un onore». La gara perfetta con Israele l’ha giocata nel 2014, in occasioni delle qualificazioni all’Eurobasket contro Montenegro. Chiuse con una tripla-doppia da 14 punti, 11 rimbalzi e 11 assist che negli Stati Uniti gli valse il soprannome di “Mekelangelo”. Una partita a tuttotondo che non ha fatto altro che sottolineare le sue principali caratteristiche di giocare completo: realizzatore mortifero e passatore geniale. Proprio come quelli che sono stati i suoi modelli. Da giovane cercava di imitare Sarunas Jasikevicius, col quale può senz’altro condividere la poca fortuna in Nba; poi è rimasto incantato da Steve Nash che ha avuto l’occasione di seguire da vicino quando è stato in America. «Giocava nel mio ruolo ed era molto creativo. Mi ha senz’altro ispirato come giocatore».
Alcune settimane fa con la Pallacanestro Reggiana ha smazzato ben 14 assist nella vittoria contro Cremona, così da riscrivere il record della società e iscrivendosi di diritto nella sua storia. Con quella performance si è avvicinato al suo record personale di 16 stabilito nel 2016 con il Maccabi. Ma certamente quelle cestistiche sono qualità non superiori a quelle umane. A Reggio Emilia infatti lo stanno iniziando a conoscere anche come la persona magnifica che è fuori dal campo, e questo logicamente non può che far piacere. Con quella faccia d’angelo che si ritrova ha addirittura intrapreso una breve carriera da modello per la casa di moda israeliana Renoir. Imbeccato dalla moglie Danyelle Sims (figlia dell’ex cestista Willie Sims, ndr) che fa invece la modella per mestiere, si è cimentato in questa esperienza. «Sono stati due anni molto divertenti - ha rivelato Mekel - che mi sono piaciuti tanto». Questo dimostra che non ha certamente paura dei riflettori, deve solo trovare l’ambiente giusto dove emergere. E sin qui, con la maturità raggiunte, Reggio Emilia lo può diventare.




* per la rivista BASKET MAGAZINE

Il ritorno - Il viaggio di Petteway ricomincia a Pistoia

Dopo l'esaltante stagione in Toscana, le deludenti esperienze a Nanterre e Salonicco
Il viaggio di Petteway ricomincia a Pistoia
"Ho colto al volo questa opportunità: è come iniziare da zero. Salvezza? Possiamo fare di più"


di Giovanni Bocciero*


PISTOIA. Si dice che l’assassino torna sempre sul luogo del delitto. Questa può essere la metafora giusta per Terran Petteway, l’ala polivalente che questa stagione ha deciso di ritornare a Pistoia per ritrovare un po’ di serenità nella sua carriera. Lui arrivò in Toscana, direttamente da oltreoceano, nell’estate del 2016 dopo aver provato a farsi largo in Nba e fortemente voluto da Enzo Esposito. In quella stagione mise in mostra tutto il suo talento, facendo registrare addirittura una prestazione da 43 punti con 10/14 da 3. Grazie anche alla sua esplosione Pistoia raggiunse i playoff coronando così l’ennesimo ottimo campionato. Sembravano aprirsi per lui le porte della pallacanestro d’élite, ma prima Nanterre (con cui esordisce in Champions League, ndr), poi al Paok Salonicco e lo scorso anno a Sassari, raccoglie delle delusioni che ne tarpano le ali. Non si sa se l’assassino torni sul luogo del delitto perché sia un pazzo, o perché sia furbo. Petteway è sicuramente tornato a Pistoia perché è l’ambiente dove può tornare a mostrare tutto il suo potenziale.
Dopotutto è cresciuto a pane e basket. «Ho cominciato a giocare a pallacanestro all’età di circa cinque anni - ha esordito -, spinto dal fatto che si trattava di una cosa di famiglia visto che anche i miei fratelli ci giocavano. Ho provato a giocare anche a football americano, ma il basket è sempre stata una costante per me». E se gli domandate cos’è che più gli piace del gioco, vi risponderà senza esitazione: «La competitività. Ogni volta devi competere contro qualcuno. Questo significa metterti alla prova, affrontare delle sfide, e lo devi fare davanti al pubblico. Questo è quello che preferisco del gioco».
Terran ha deciso di tornare a... casa. "Avevo un ricordo bellissimo
della città e dei suoi tifosi, l'ambiente migliore per mettermi alla
prova dopo due anni insoddisfacenti".
Nella sua carriera non ha avuto un avversario che davvero lo abbia impensierito più del dovuto, e neppure un punto di riferimento da emulare. «Ho giocato contro tanti giocatori, sia nelle varie pre-season Nba alle quali ho preso parte che giocando qui in Europa, che non saprei dire un avversario in particolare. È davvero difficile sceglierne solo uno». «Non ho un personaggio sportivo a cui mi ispiri in particolare forse perché - ha rivelato Petteway - perché non guardo molte partite nel tempo libero, ma mi dedico ad altro. Ad esempio quando non sono impegnato con gli allenamenti o le partite mi piace stare in famiglia e giocare alla playstation con gli amici. Cose normali che mi distraggono dalla routine». Senz’altro gli piace di più il rapporto umano vissuto che quello virtuale. Proprio per questo «non mi piacciono molto i social media, perché secondo me nell’usarli si nascondono più aspetti negativi che positivi. Per questo non li uso a meno che non debba proprio».
In campo è un ragazzo serio, abituato a fare i fatti, che si fa apprezzare soprattutto per questo. Fuori dal campo appare riservato, quasi introverso. Prega tutti i giorni ma «non direi di essere una persona religiosa, anche se posso affermare di credere in Dio. Non sono però un frequentatore assiduo della chiesa». Condanna ovviamente il razzismo anche se non è mai stato soggetto. «Fortunatamente non mi è mai successo personalmente di essere al centro di un episodio di razzismo. A volte sono stato fischiato insieme alla squadra, ma si è trattato di nulla di grave». L’anno prossimo negli Stati Uniti si voterà per il nuovo presidente e, quello attuale ovvero Donald Trump non è molto simpatico soprattutto agli atleti di colore per tanti suoi gesti ed esternazioni al limite proprio del razzismo. Su questo argomento Petteway è stato davvero di poche parole, perché alla domanda su cosa pensasse del presidente americano ha risposto con un secco «no comment». Altro grande tema di attualità è quello riguardante l’ambiente, e su questo ha risposto: «Non ho un’idea precisa, ma ovviamente capisco che è importante la salvaguardia del nostro pianeta».
Nell’ascoltare le sue risposte si capisce che si tratta di un ragazzo con la testa sulle spalle, che ha dei profondi valori. Ma non fatevi ingannare dal suo percorso di studi, perché la laurea in studi etnici che potrebbe incuriosire molti è stata una scelta molto ben oculata: «Se devo essere onesto, era la cosa più semplice da poter studiare». Inoltre è molto autocritico e sa perfettamente quali sono i suoi difetti: «Come tutti i giocatori, credo che ci sia sempre qualcosa su cui dover lavorare e migliorare. Io personalmente ho tante cose da migliorare - ha raccontato -, non solo una. La mia forza, però, credo sia quella di cercare di giocare per la squadra. Ci sto lavorando tanto, soprattutto dal punto di vista della mentalità. Voglio rimanere sempre positivo e trasferire questa positività agli altri».
Abbiamo detto che Pistoia solo tre anni fa sembrava la sua rampa di lancio. Lui che ha avuto un’ottima carriera collegiale all’università del Nebraska, tanto da provare anche a giocarsi le proprie carte in ottica Nba. Purtroppo il campionato professionistico americano non lo ha mai preso, finora, davvero in considerazione. Per questo ha ripiegato sul Vecchio Continente dove le varie esperienze che ha vissuto lo hanno forgiato più dal punto di vista mentale che da quello tecnico. E se gli domandante se è soddisfatto della sua attuale carriera, non aspettatevi parole dolci. «Sono grato per le opportunità che ho avuto sin qui, ma in realtà non sono ancora felice della strada intrapresa nella mia carriera. Nelle ultime due stagioni mi sono ritrovato a dover rescindere il contratto che avevo con le squadre, quindi non posso dire che siano stati anni positivi per me». Proprio per questo ha deciso di tornare a Pistoia, dove sembrava stesse spiccando il volo. «L’essere ritornato a Pistoia è stata un’opportunità per iniziare da zero, per mettermi alla prova. Sono grato di poter essere tornato qui, e che la società abbia creduto in me. Avevo dei bellissimi ricordi del campionato, della città, e soprattutto dei tifosi e, davvero, non posso che essere felice di essere tornato».
In questo primo scorcio di stagione si è percepito quanto Petteway sia stato segnato dagli ultimi anni non proprio esaltanti. Non a caso non è più quel giocatore accentratore che, forse, guardava più alle sue statistiche personali che alle prestazioni della squadra; ma sembra aver capito quanto sia importante rendere partecipi tutti i compagni tant’è che sono lievitate le assist che distribuisce. «Negli anni sono maturato molto. Soprattutto dopo le ultime due stagioni nelle quali sono stato tagliato, ho avuto tanto tempo per pensare a come reagire. E questo credo che mi abbia permesso di crescere sotto il punto di vista della leadership. Inoltre ho potuto lavorare tanto per migliorare alcuni aspetti del mio gioco. Oggi cerco di coinvolgere di più i miei compagni, anche perché tutti si aspettano che prenda il pallone e tiri. Sto lavorando per cercare di maturare ancora di più, e credo di essere sulla buona strada».
Quando lui giocò a Pistoia, nel 2016/17, è stato anche l’ultimo campionato il club è riuscito a raggiungere i playoff. Da tre stagioni infatti l’obiettivo primario è la salvezza. «Non possiamo pensare troppo al futuro - ha continuato Petteway -, ma dobbiamo concentrarci su ogni singolo giorno. Di questo ne parliamo molto nello spogliatoio. Dobbiamo pensare ad una partita alla volta, e vedere solo alla fine dove ci avrà portato questa mentalità. Ma una cosa la posso dire, ovvero che pensiamo davvero di poter fare bene in questo campionato». L’amalgama tra i giocatori, e l’unione d’intenti con l’allenatore Michele Carrea sono punti fondamentali per raggiungere i risultati. «Io e il coach abbiamo un buon feeling. Su alcune cose siamo d’accordo, su altre meno, ma non abbiamo mai avuto problemi a parlare, a confrontarci. Lavoriamo bene insieme e sono molto felice di questo rapporto che c’è tra di noi».
Oggi pensa a Pistoia, e alla salvezza. Ma quando smetterà di fare il giocatore, cosa vorrà fare Petteway? «Voglio senza alcun dubbio rimanere nell’ambiente, e ci spero tanto. Ho dedicato tutta la mia vita alla pallacanestro e voglio che continui a farne parte anche in futuro. Non importa se nel ruolo di allenatore o anche in altri modi, questo si vedrà più in là». Avendo giocato sia in Italia che in Francia, però, non potevamo non sottoporgli la domanda su quale due due paesi preferisce: «Senza alcun dubbio l’Italia, che è un paese fantastico. La Francia non mi è piaciuta molto, la trovo troppo lontana dal mio modo di essere. Anche e soprattutto per questo sono tornato molto volentieri in Italia».

LA SCHEDA
Terran Petteway è nato l’8 ottobre del 1992 a Galveston, in Texas. Al liceo ha guidato la locale squadra dei Tornados venendo nominato due volte quale Offensive player of the year e guadagnandosi un posto tra i dieci migliori talenti dello stato. Per questo sceglie di andare all’università di Texas Tech, quella di Davide Moretti, ma dopo un anno appena si trasferisce all’università del Nebraska dove si mette in luce come uno dei migliori marcatori della Big Ten. Dopo un anno trascorso in G-League si trasferisce a Pistoia e inizia a girare per l’Europa: Nanterre, Paok Salonicco, Sassari.



* per la rivista BASKET MAGAZINE