giovedì 23 marzo 2017

Alla scoperta della nona edizione del Dick's Nationals

Alla scoperta della nona edizione del Dick's Nationals



Lo so, parlare adesso di basket scolastico a stelle e strisce che non tratti della March Madness può sembrare una idiozia. Un autogol per attenzione. Ma il 30 e 31 marzo e l'1 aprile a New York City andrà in scena la nona edizione del Dick's Nationals, torneo ad invito che ha un unico grande obiettivo, ovvero proclamare the best high school basketball team in the country.


LE INVITATE. A contendersi tale ambito riconoscimento a livello liceale saranno otto scuole, le blasonate e abituate Oak Hill Academy, Montverde Academy e Findlay Prep, le agguerrite La Lumiere School e IMG Academy, e infine Wasatch Academy, Shadow Mountain e Greensboro Day. Iniziamo dal programma che vede tutte le partite disputarsi presso la palestra del liceo Christ the King di Middle Village, periferia della "Big Apple", dove tra giovedì e venerdì prossimi saranno disputati i quarti e le semifinali. Il tabellone prevede nella parte alta la #1 La Lumiere affrontare subito la #8 Wasatch; mentre l'avversaria della semifinale uscirà dalla super sfida che vedrà opposte la #4 Findlay Prep e la #5 Oak Hill Academy. Nella parte bassa invece, la vincente dell'incontro tra la #2 IMG Academy e la #7 Greensboro Day dovrà affrontare poi quella del matchup tra la #3 Montverde Academy e la #6 Shadow Mountain di Phoenix allenata dal veterano NBA Mike Bibby. Phoenix appunto, dove vi sarà la massima attenzione nella giornata di sabato per le semifinali della Final Four collegiale anche se qualche ora prima al Madison Square Garden è in programma la championship game del Dick's Nationals.

I PRESENTI. Questo appuntamento nazionale è un buon motivo e ulteriore vetrina per vedere all'opera i liceali più forti del paese e prossimi al salto universitario. Per questo gli scout non sottovalutano il torneo. E per chi vuol conoscere e sapere chi sono i giocatori più attesi che vi partecipano, adesso ne diamo una carrellata. Innanzitutto è bene sapere che tra le fila delle otto squadre vi sono 19 giocatori inseriti nelle speciali classifiche valutative di ESPN, ovvero 11 nella Top 100 della classe 2017, 5 nella Top 60 della classe 2018, e infine 3 nella Top 25 della classe 2019. La scuola più rappresentata è l'Oak Hill Academy che conta ben 5 atleti, ovvero il lungo Billy Preston promesso sposo di Kansas, il play Matt Coleman che ha firmato per Texas, e le guardie Lindell Wigginton che sbarcherà ad Iowa State e Ty-Shon Alexander che ha invece optato per Creighton. Tra questi che si gradueranno nel 2017, c'è anche il centrone junior David McCormack. Importante anche la nidiata dell'IMG Academy, perché il liceo della Florida conta sulla tanto attesa point guard Trevon Duval ancora indeciso su quale college frequentare (sulle sue tracce Kansas, Arizona, Duke, Baylor e Seton Hall). Eccone un assaggio:


Poi ci sono i due centri Isaiah Stokes che ha già accettato la borsa di studio offerta da Florida e l'angolano Bruno Fernando che dopo essersi riclassificato dalla classe 2016 a quella 2017 ha scelto Maryland. Per la classe 2018 invece, ha tra le proprie fila i lunghi Emmitt Williams e Silvio De Sousa che fanno gola a non pochi atenei. La Lumiere metterà in mostra oltre al suo miglior prospetto Brian Bowen, ancora indeciso sull'offerta collegiale da accettare, la power forward Jaren Jackson promesso sposo di Michigan State e la shooting guard Jordan Poole che invece militerà dall'anno prossimo con gli acerrimi nemici di Michigan. Altro esponente di La Lumiere è il play Tyger Campbell della classe addirittura 2019. Proprio di quest'ultima classe sono due gli esponenti della Montverde Academy, tra le formazioni più giovani della kermesse. Oltre al talentuoso canadese R.J. Barrett considerato #1 da ESPN e che potete ammirare nel video successivo (Arizona, Duke, Kansas, Kentucky, UCLA, Texas, Oklahoma, Missouri, Oregon, Indiana, Baylor e USC in fila per lui), sfoggerà il play Andrew Nembhard e l'ala Rechon Black della classe 2018 che ha accettato la borsa di studio di North Carolina. Un giocatore di livello a testa per la Findlay Prep che conterà sul lungo P.J. Washington che giocherà per Kentucky l'anno prossimo; e per la Wasatch Academy, piccolo liceo dello Utah, che sfoggerà la small forward Emmanuel Akot fresco di firma con Arizona.


GLI ASSENTI. Abbiamo detto che al Dick's Nationals vi sarà il #1 della classe 2019, mentre invece mancheranno i #1 delle classi 2017 e 2018, rispettivamente Michael Porter Jr. e Marvin Bagley III. Per quanto riguarda Porter, che ha letteralmente trascinato l'high school di Nathan Hale allenata da Brandon Roy (eh già, adesso allena i ragazzi) al record di 29-0 con tanto di primato nel ranking Super 25, l'invito è stato declinato perché il ragazzo ha dato precedenza al suo futuro. Infatti lui già la passata primavera aveva scelto di vestire la casacca di Washington, ma è notizia di questi giorni che ha deciso di ritirare la lettera di intenti con l'università per ripiegare su Missouri, il suo stato di nascita. La decisione è giunta dopo il licenziamento di coach Lorenzo Romar (visto alla Virtus Roma un paio di decenni fa) e il conseguente passaggio del padre assistente proprio da Washington a Missouri. Di diversa motivazione l'assenza del fenomeno nativo di Phoenix Bagley (Kentucky, Duke, UCLA, Arizona, Arizona State e Oregon nella sua school list) e del suo liceo Sierra Canyon, che nonostante abbia a lungo inseguito il primo posto del ranking nazionale durante l'intera stagione è stato sorprendentemente eliminato ai quarti del torneo statale della California. E così gli è stato negato l'invito. I due si sono addirittura affrontati durante la stagione:


IL PALMARES. Per quanto riguarda l'albo d'oro, la manifestazione è stata monopolizzata nelle sue otto edizioni da due licei. Si tratta della Findlay Prep di Henderson che ha vinto tre dei primi quattro tornei, inframezzato dal successo nel 2011 della Montrose Christian al suo primo ed unico invito. Dal 2013 invece la Montverde Academy di coach Kevin Boyle ha calato il personale three-peat grazie soprattutto al duo composto da D'Angelo Russell e Ben Simmons che hanno dato un contributo non indifferente. Ci sarebbe anche la Oak Hill Academy del veterano tecnico Steve Smith, una vera e propria fucina di talenti, che ha disputato ben cinque finali riuscendo a vincere il suo primo titolo soltanto nella passata stagione. E la vittoria è arrivata dopo un overtime proprio contro La Lumiere School del giovane coach Shane Heirman che dopo aver raggiunto la sua prima finale alla quinta partecipazione, in questa edizione ha i favori del pronostico.


venerdì 10 marzo 2017

Il grande ritorno: Mike D'Antoni

Mike D'Antoni e le 4 vite di Arsenio Lupin


di Giovanni Bocciero*


Riva: «Mike sfortunato, ma mai un perdente»

Il grande ritorno. Nella grande stagione di Houston, il personale
riscatto di Mike dopo le delusioni e le brutte esperienze
con i New York Knicks ed i Los Angeles Lakers
Se si guardano immagini delle diverse squadre allenate da Mike D’Antoni, si farà caso che i dettami tattici sono pressoché gli stessi da anni ormai. Dagli inizi in quel di Milano e Treviso, all’approdo in NBA dove è stato seduto sulle panchine di Denver, Phoenix, New York, Lakers e Houston. Con risultati alterni ma pur senza snaturare la propria idea cestistica, ovvero quella di correre in campo aperto, difendere allo stremo e tirare velocemente. «È sempre stato il suo credo - ha rivelato Antonello Riva -. Ricordo che per aumentare i possessi offensivi avevamo messo la regola che dopo qualsiasi canestro segnato pressavamo l’avversario per ritornare immediatamente in possesso del pallone. Oppure lo obbligavamo a velocizzare il proprio attacco. Facevamo tanti esercizi in allenamento proprio per velocizzare il nostro modo di andare a canestro». Uno stile di gioco che lo ha bollato come perdente oltreoceano, fin quando non sono esplosi i Warriors. «Inutile dire che soprattutto per gli allenatori non dipende unicamente dal proprio operato, ma prima di tutto dal rendimento dei giocatori e poi soprattutto dalla situazione societaria. Credo ad esempio - ha continuato l’ex Milano - che a New York sia arrivato nel momento peggiore della franchigia a livello di struttura societaria. È semplicemente capitato al posto sbagliato nel momento sbagliato perché le qualità di Mike non si discutono dopo tutti gli anni trascorsi in Italia e in NBA. E oggigiorno lo reputo uno dei migliori allenatori al mondo». La fiducia è un aspetto imprescindibile? «Una delle qualità di Mike è quella di mettere a proprio agio i suoi giocatori. Il fatto di essere stato un grande atleta è per lui un vantaggio, perché - ha concluso il bomber - lo aiuta a capire psicologicamente il giocatore che ha di fronte».


Pittis: «È un campione, con le sconfitte cresce»

Affinché le squadre di Mike D’Antoni rendano al massimo c’è bisogno che i giocatori dispongano della necessaria disponibilità nei suoi confronti. «Noi avevamo totale fiducia in Mike - ha dichiarato Riccardo Pittis -. Non avevamo alcun dubbio che le scelte prese fossero buone». L’ala ex Milano e Treviso fu l’oggetto della rivoluzione tattica, ovvero il primo esempio di small ball. «Sia per l’esigenza di coprire una posizione dove mancava un giocatore di ruolo, che per provare qualcosa di diverso, Mike decise di spostarmi da ‘3’ a ‘4’. L’esperimento, che era più una opzione e non una norma, funzionò talmente bene che lo ha fatto suo». Per vincere D’Antoni deve sentire che i giocatori sono con lui, perché «come in ogni situazione e per ogni persona, quando il gruppo ti segue diventa più facile mettere in pratica le tue idee. Questo ambiente - ha raccontato Pittis - si creò a Milano e Treviso, e sono certo che è così a Houston come prima ancora a Phoenix. Per quanto riguarda le esperienze di New York e Los Angeles, non è che le sue idee non abbiano funzionato, semplicemente erano delle situazioni particolari con squadre composte da giocatori estremamente difficili da gestire. E come dimostrano i risultati successivi non ha fallito solo lui. Per quanto mi riguarda, probabilmente se mi avesse messo a giocare da ‘5’ sarebbe andato bene lo stesso». Ma come può passare da due anni di inattività all’essere quasi il coach dell’anno in NBA? «Mike ha il Dna del campione, non si ferma davanti alle sconfitte ma anzi, ne trae insegnamento e si evolve. Sono particolarmente contento per lui perché so quanto ci tiene e con quale passione svolge il suo lavoro. Ha una smisurata voglia di insegnare pallacanestro e - ha concluso l’attuale telecronista Rai - di divertirsi facendo giocar bene».


Meneghin: «Maniaco del lavoro, non del sistema»

Gioie e dolori in panchina. Ha avuto stagioni felici con i Phoenix Suns
in coincidenza con l'arrivo in squadra di Steve Nash: pick and roll,
small ball, run and gun. 62-20 il record e Coach of the Year nel 2003
Il coach di Houston è stato spesso additato come fossilizzato su di un unico sistema di gioco. È realmente così? «Mike è sempre stata una persona molto flessibile - ha commentato Dino Meneghin -, non si fissa su di una cosa portandola avanti a qualunque costo. Chiaramente tutto dipende dai risultati, perché se questi arrivano con un modo di gioco allora prosegue, ma se bisogna apportare delle migliorie cambia sistema adattandosi ai giocatori che ha a disposizione. È una persona intelligente e grande conoscitore del gioco, e sa di non dover continuare se le cose vanno male. In NBA è costretto a cambiare registro e ad adattarsi. È testardo in realtà dal punto di vista del lavoro, per il resto è attento a ciò che gli succede intorno». E perché allora non è riuscito a vincere a New York e a Los Angeles? «Quegli anni sono stati difficile perché è estremamente complicato lavorare in quelle due piazze dove già soltanto arrivare secondi è un insuccesso. Ha patito certamente tutto l’ambiente, e il fatto di avere a disposizione dei giocatori che pensavano più a sé stessi che al gioco di squadra, cosa che lui predilige. Mike - ha continuato l’ex presidente FIP - riesce ad ottenere i risultati se ha tra le mani atleti che sanno mettere la squadra al primo posto, che non guardano al tabellino personale. Evidentemente quest’anno ha questo tipo di giocatori che fanno rendere al meglio il tipo di gioco che vuole». Ma per imporsi D’Antoni ha solo bisogno di vincere? «Il sogno di tutti è vincere. In America è quello dell’anello. Per fortuna in NBA non guardano soltanto alle vittorie ma ai risultati che ottieni. La consacrazione arriva se vince, ma puoi avere una buona nomea - ha concluso l’ex Milano - se riesci a far migliorare il gruppo di giocatori, trasformandoli in una squadra vera».




* per la rivista BASKET MAGAZINE

Yakhouba Diawara: tutto lavoro e tanto cuore

Yakhouba Diawara: tutto lavoro e tanto cuore

Torniamo a scoprire l'ala francese 'usato sicuro', vecchia conoscenza del nostro basket. Ragazzo umile, che non dimentica l'infanzia difficile: si sente un privilegiato, vuole aiutare i più giovani.



di Giovanni Bocciero*


CASERTA - Ragazzo umile, disponibile, che ricorda da dove viene così da vivere al meglio il suo presente e futuro. Questo è Yakhouba Diawara, ala francese alla sua sesta esperienza in Italia con la JuveCaserta. Un rinforzo ponderato, che è risultato essere decisivo sin dal suo esordio con il canestro vincente in quel di Reggio Emilia. Un grande attestato di stima da parte di coach Sandro Dell’Agnello che gli ha affidato l’ultimo tiro, e dei nuovi compagni di squadra che hanno riposto subito fiducia in lui. Già bene integrato nel gruppo, l’esperienza maturata ad un discreto livello in NBA (187 presenze con una media di 14 minuti e 3.5 punti) potrà sicuramente aiutare Caserta ad accedere ai playoff che mancano dal 2009/10.

Un cugino nel Bordeaux e il Diawara del Napoli è un suo lontano
parente. Lui disse no al calcio perché d'inverno faceva troppo freddo
Da bambino hai iniziato a giocare a pallamano, poi invece hai cambiato sport. Come ti sei avvicinato al basket?
«Sono cresciuto nel periodo più esaltante di Michael Jordan, che ho visto per la prima volta nel ‘93. In quegli anni la pallacanestro si è diffusa in tanti playground, ed ho finito per innamorarmi di questo bellissimo sport».
Qual è l’aneddoto che ricordi con più piacere dei tuoi inizi col basket?
«Durante la prima partita che ho giocato a Parigi ho messo a segno un paio di canestri in fila, e questo ha fatto entusiasmare pubblico e compagni. Mi è piaciuta la loro reazione e l’ho trovata così pazzesca da rendermi felice».
Ti piace molto anche il calcio, ed hai un cugino che giocava da professionista in Francia?
«Ho giocato anche a calcio ma ho lasciato siccome d’inverno faceva freddo e preferivo stare al coperto e al caldo. Ho un cugino che ha giocato al Bordeaux, ma anche il centrocampista del Napoli Amadou Diawara è un mio parente alla lontana. Dovrei chiedere a mia mamma per risalire alla parentela (ride!)».
Quando giocavi da bambino ti immaginavi già di diventare un giocatore professionista?
«Ho iniziato a giocare per divertimento, in maniera tranquilla. Poi con il passare degli anni ho visto che giocavo bene, ho iniziato a lavorare tanto dopo la scuola, e allora mi sono detto perché no! A diciotto anni ho vinto l’europeo con Tony Parker e mi sono impegnato sempre di più».
Ti sei poi trasferito negli Stati Uniti, giocando al college prima a Southern Idaho e poi a Pepperdine. A quel punto la NBA era un tuo sogno?
«Sicuramente con l’esperienza a Pepperdine, perché ho avuto la possibilità di giocare in Division I contro squadre come UCLA, USC, Gonzaga, e c’erano tanti coach e scout che venivano a vedere le partite. Ricordo che in un match casalingo proprio contro Gonzaga c’era Pat Riley sulle tribune. A quel punto ho iniziato a pensare seriamente alla NBA».
La prima esperienza in Italia è stata alla Fortitudo Bologna nel 2006. Arrivasti con la fama di essere un pessimo tiratore per un problema alla vista, eppure registrasti il 54% dall’arco. Cosa ricordi?
«Quando arrivai a Bologna tutti dicevano che non tiravo, e che ero solo un difensore. Io volevo rispondere con i fatti. Tiravo prima, durante e dopo l’allenamento, tutti i giorni. Sono stati quattro mesi bellissimi che mi hanno fatto innamorare del basket italiano per il suo gioco ed il suo calore che non si trovano in Francia e neppure nelle arene dell’NBA».
Oltretutto le tifoserie di Fortitudo e JuveCaserta sono gemellate?
«È una cosa fantastica. Anche con Varese corrono buoni rapporti, e sono felice per questo perché si tratta di squadre dove ho lasciato un pezzo di cuore e di cui sono un accanito tifoso».
"Dicevano che non tiravo mai: ho passato ore su ore in palestra per
non essere considerato più soltanto un buon difensore"
Dalla prima esperienza italiana esattamente 11 anni fa, ad oggi che sei a Caserta, come è cambiato il tuo gioco, il tuo approccio ad un match?
«Certamente adesso ho più esperienza. Ad esempio a Brindisi ho fatto un anno così così dove potevo fare di più. Poi a Varese è andata meglio, da semplice esterno ho iniziato anche a giocare da ala forte. Anche qui a Caserta gioco spesso da lungo, e seppur preferisco giocare da esterno sono pronto a sacrificarmi per la squadra. L’obiettivo deve essere quello di riportare la JuveCaserta ai playoff».
Hai giocato con Carmelo Anthony e Dwayne Wade. Com’è giocare con superstar di quel calibro?
«Ho giocato anche con il mio idolo Allen Iverson. Lavorare con dei marcatori ed atleti incredibili come loro, tutti i giorni, è un qualcosa di fantastico. Ho cercato di apprendere tanto e far tesoro dei loro insegnamenti».
Ormai conosci molto bene l’Italia. C’è qualcosa in particolarmente che ti piace?
«L’Italia è decisamente il mio paese preferito. Amo la lingua, il cibo, l’arte, il pubblico. Sono francese ma amo più l’Italia che la Francia».
C’è un film - Benvenuti al Sud - che racconta le distinzioni tra il Nord ed il Sud Italia. Tu hai giocato in tante e diverse città. Esistono davvero queste differenze di comportamento tra le persone?
«Credo che qualche differenza ci sia. Al nord le persone sono più chiuse, lavorano duramente e si vestono più chic. Al sud invece le persone sono aperte, solari, alla portata, e lavorano con molta più tranquillità. Io però non faccio distinzioni perché mi piacciono sia l’una che l’altra».
Sei della periferia parigina - Tremblay precisamente -, ed hai avuto un’infanzia difficile. Come sei arrivato ad essere l’uomo che sei oggi?
«Devo ringraziare la mamma e il papà, che hanno saputo crescermi. Se oggi sono così la colpa è unicamente loro (ride!). Sono stato davvero fortunato ad avere due genitori come loro, così come i miei fratelli e sorelle che mi hanno aiutato. Li ringrazio tutti i giorni e non lo finirò mai di fare».
Durante il periodo di inattività hai lavorato molto da solo, cercando la miglior forma fisica. È un po’ la metafora della tua vita: lavorare duro per ottenere i risultati?
«Senz’altro. Il mio corpo è il mio lavoro, e quindi se non lo curo non posso pensare di giocare, e di farlo bene. Seguendo un campione come Kobe Bryant, che a fine stagione non smetteva mai di lavorare, mi ha fatto capire che per ambire al massimo e allungare quanto più possibile la carriera da giocatore non devi mai fermarti. Mi reputo un professionista, e dunque devo sfruttare tutte le opportunità che mi si presentano».
"Con la Nba ho realizzato il sogno. Michael Jordan il mio mito, da Kobe
ho appreso la cultura del lavoro e ho giocato con Iveron"
Parigi è la tua città, come hai vissuto gli attentati terroristici e cosa ne pensi di questa situazione che sta mettendo in ginocchio tutto il mondo?
«Mi ha fatto molto male. È stato un momento molto difficile per tanti miei amici. Purtroppo non è stata colpita solo Parigi, ma anche Londra, Istanbul, Berlino, Bruxelles. Non possiamo certamente chiuderci in casa e non uscire più, facendoci condizionare. Il mondo purtroppo sta andando così, ma chiunque deve continuare a vivere la propria vita pregando che questi attentati finiscano quanto prima».
La Francia è una società multietnica, testimoniata dalla stessa nazionale di basket. In Italia è all’ordine del giorno il problema immigrazione. Cosa ti senti di dire?
«È piuttosto difficile perché il tema dipende molto dalla politica. In Francia ci sono molti abitanti di origine algerina, marocchina, senegalese e di tanti altri paese africani che appartenevano alle ex colonie francesi. Molti di loro sono arrivati in Francia per trovare lavoro. In Italia credo sia un po’ più difficile, e le poche cose che so le ho apprese dalla televisione. Spero solo che tutti possano essere felici».
Vivi negli Stati Uniti - ha casa a Miami -. Cosa pensi del nuovo presidente Donald Trump e come vedi il futuro in America?
«Trump ha vinto e dovrà governare per i prossimi quattro anni. Ha dichiarato che vuole cambiare tante cose, e addirittura costruire un muro al confine con il Messico. Alcuni provvedimenti li ha già messi in pratica. Vediamo come procederà il suo lavoro e poi commenteremo».
A Denver hai comprato per un anno intero biglietti a persone in difficoltà. Sei un ragazzo dal cuore d’oro?
«Mi sento una persona fortunata, e siccome non tutti si possono permettere di acquistare un biglietto per assistere ad una partita NBA ho cercato di rendermi utile. Con questo gesto volevo ripagarli del loro affetto, perché senza tifosi io praticamente non sono nessuno. Da bambino non potevo permettermi di andare a vedere una partita ma adesso che ho questa grande opportunità voglio donare qualcosa a chi è in difficoltà».
I tuoi genitori sono del Senegal, hai in cantiere dei progetti benefici per i più poveri del paese?
«Voglio assolutamente fare delle attività di solidarietà e beneficenza, sia in Francia che in Senegal. Ho diverse idee ma non c’è ancora nulla di veramente concreto. Più in là sicuramente cercherò di fare qualcosa soprattutto per i bambini».
Se non avessi fatto il giocatore di basket, cosa ti sarebbe piaciuto fare?
«Proprio perché tengo molto ai bambini e voglio aiutarli se sono in difficoltà, mi sarebbe piaciuto fare l’assistente sociale».
E dopo la pallacanestro cosa vorresti fare?
«Mi piacerebbe restare in questo mondo con un ruolo da allenatore. In particolare vorrei allenare all’università o all’high school, con cui sono molto in contatto, oppure rimanere in Italia. Il massimo livello a cui aspiro, comunque, è l’under 20, perché i professionisti sono molto complicati da allenare (ride!)».




Caserta, pubblico in calo e sempre più esigente

di Giovanni Bocciero

“Caserta città del basket”. È lo slogan che afferma ormai da anni quanto il legame tra la città e la pallacanestro sia forte, indivisibile. Nell’ultimo periodo questo slogan ha perso un po’ di significato, svuotato nei fatti più che nelle parole. Perché se realmente Caserta ed il basket fossero ancora uniti in maniera indissolubile, non si dovrebbero vedere gli spalti del PalaMaggiò vuoti ad ogni incontro. Ci sono di certo diverse attenuati: i risultati molto altalenanti, la lontananza del palazzo dal centro città, le difficoltà economiche della popolazione. Ma se neppure il ritorno dell’idolo Oscar Schmidt ha permesso che l’impianto di Castel Morrone toccasse il sold-out, allora davvero c’è qualcosa che non torna. Ormai è rimasto uno zoccolo duro di tifosi di vecchia data, che acquistato regolarmente l’abbonamento ad inizio stagione, ma sembra esser venuto meno in questi anni il cosiddetto ricambio generazionale del tifo. Non che i giovani non ci siano, sia chiaro. È che purtroppo non provano lo stesso attaccamento che le persone di una certa età hanno nei confronti della squadra. Forse addirittura troppo attaccamento, dato che spesso si sfocia in qualche episodio di poca pazienza con i fischi provenienti dalle tribune al minimo errore. È successo contro Varese, e ad Edgar Sosa non è sceso proprio giù, tanto da mostrare il dito medio in un raptus di pura rabbia. Contro Cremona invece, il pubblico è stato l’autentico sesto uomo, fondamentale nel momento cruciale che ha visto la JuveCaserta rimontare e poi vincere. È quello lo spirito con cui i casertani dovrebbero andare a vedere la partita, ovvero sostenere la squadra sempre e comunque, a prescindere dal risultato. Perché il PalaMaggiò deve incutere timore agli avversari, e non caricare di pressione i propri beniamini.




Altro rinforzo per Caserta: c'è anche Berisha

di Giovanni Bocciero

La JuveCaserta ha colto l’occasione della sosta per le Final Eight di Coppa Italia per inserire nel roster la guardia Dardan Berisha. Una scelta di mercato dovuta ovviamente all’urgenza di aggiungere un ulteriore uomo alle rotazioni, e possibilmente che fosse pronto per dare sin da subito un apporto alla squadra. Coach Dell’Agnello può essere contento di questo innesto, così da riequilibrare l’assetto della formazione con Josh Bostic fermo ai box, che sta vivendo evidentemente un calo fisico e mentale. Berisha, kosovaro di nascita ma con passaporto polacco, vanta la giusta esperienza in campo europeo. E adesso sarà a disposizione di Caserta che con lui vuole raggiungere i playoff. Una gran fetta del tifo bianconero ha accolto con soddisfazione questo ingaggio perché all’ombra della Reggia si è cresciuti con la cultura che gli slavi sono tosti e valorosi. E a lui chiedono durezza mentale.





* per la rivista BASKET MAGAZINE

giovedì 9 marzo 2017

L'ascesa della meteora Justin Patton

L'ascesa della meteora Justin Patton


di Giovanni Bocciero*


La città di Omaha, la più grande dello stato del Nebraska con oltre 400 mila abitanti, è tra le più tranquille degli Stati Uniti, piena di musei e sede della Creighton University. Fondata a metà dell’800, si è guadagnata in fretta il soprannome di ‘Gateway to the West’ a causa della linea ferroviaria che portava verso la costa orientale.  Si svolge tutta qui la storia del giovane Justin Patton, ragazzo afroamericano dai modi gentili che non ha mai messo piede fuori dalla città in cui è nato e cresciuto. Va spesso al palazzetto come spettatore perché ha un amore sconfinato per la pallacanestro. E a Omaha la sua vita a un certo punto cambia.

‘The biggest sleeper’

Il viaggio di questa autentica meteora del college basketball ha un inizio particolare. Al termine dell’anno da sophomore alla Omaha North High School questo ragazzo che ha appena toccato i 204 cm d’altezza viene notato da Bob Franzese, che gestisce una locale accademia giovanile. Franzese invita Patton a partecipare con la sua società ad un torneo che si sarebbe svolto a Las Vegas. Ricordate che non aveva mai messo piede fuori da Omaha? E così il giorno della partenza rischia di far perdere l’aereo all’intera squadra perché non si staccava dalla mamma. In campo fa poco o nulla, e finisce in uno straccio di report etichettato come “the biggest sleeper”. Il gigante dormiente diremmo noi. E come dargli torto? Sarà capace al liceo di segnare soltanto 2 punti contro il pivot di una squadra avversaria che era alto poco più di 185 cm.

Franzese, meravigliato che il ragazzo passasse inosservato nonostante la sua statura, chiama Darian DeVries – assistant coach di Creighton – dicendogli di tenerlo d’occhio. Al termine dell’anno da senior, viene invitato ad andare al campus universitario (distante 4 miglia da casa sua) dove conosce coach Greg McDermott. Dopo una lunga chiacchierata, i Bluejays gli offrono la borsa di studio anche perchè ormai è sette piedi, e non è il caso di lasciarselo sfuggire. Patton per due motivi non esita ad accettarla. In primis perché quando dicevamo che andava al palazzetto da spettatore, intendevamo proprio al CenturyLink Center per vedere Creighton. Per lui passare dagli spalti al parquet era un sogno che si realizzava. Ma, soprattutto, era l’unica borsa di studio che avesse ricevuto.

Patatine tre volte al giorno

Nell’estate del 2015 inizia la sua avventura collegiale, e lo fa con il tour che vede Creighton protagonista in Italia. Le prime prestazioni sono pressoché un disastro, così come le sue abitudini alimentari che vanno immediatamente corrette dato che mangia patatine fritte a colazione, pranzo e cena. Il fisico troppo scheletrico e le lacune cestistiche sono lampanti per competere ai livelli richiesti in Division I. E così, dopo un’attenta valutazione, McDermott e lo staff tecnico lo persuadono a prendersi un anno da redshirt, in modo da poter lavorare senza perdere l’anno accademico. Inizia una dieta a base di pasta e in particolare di spaghetti, dei quali è rimasto stregato dopo il viaggio nel Bel Paese.

Lavora tantissimo in palestra per aumentare sia la massa muscolare che vari aspetti del suo gioco. A sentir DeVries, il giovanotto assorbe tutto come fosse una spugna (si diceva questo anche di Joel Embiid quando giocava a Kansas), ma spesso si allena senza la necessaria intensità. Trascorre tutta la stagione senza giocare e si fa notare soprattutto perchè, quando cammina per i corridoi dello spogliatoio, si diverte a fingere di stare al telefono con gli scout Nba e i rappresentanti della Nike negoziando il contratto per le scarpe. Dodici mesi più tardi la storia cambia completamente. Difficile da credere, ma Justin Patton spunta dal nulla conquistandosi l’attenzione di tutti.

Un prospetto per altezza e tecnica

Cosa gli ha permesso di comparire nei mock draft? Rispetto a tanti ragazzi spinti verso il basket per la loro altezza, Patton ha iniziato a praticarlo perché davvero innamorato di questo gioco. E questa è una base non indifferente. Sono ancora tanti gli aspetti da migliorare nel gioco di questo classe ’97 che però possiede delle capacità che lo rendono un prospetto talmente intrigante da puntarci assolutamente. Per altezza può essere dominante anche al piano di sopra, la tecnica già ora è sopra la media dei pari ruolo. Molto mobile, corre benissimo il campo e ha un tocco morbido tanto da tirare con uno straordinario 70% dal campo. Certo, la cosa è presto spiegata dalle tante schiacciate che realizza: da rimbalzo offensivo, arrivando a rimorchio, in catch-lob che è una sua peculiarità.

Ma sarebbe riduttivo restringere il cerchio soltanto a questo. Patton può infatti diventare pericoloso in tanti modi differenti, anche come passatore (1.3 assist di media) dato che ha mani e visione di gioco. E naturalmente in post basso dove però il suo fisico è ancora troppo gracile. Non a caso tende a terminare le azioni vicino canestro con finta e piede perno per spiazzare l’avversario e trovare un tiro a più alta percentuale. La forza fisica è proprio un suo punto debole, dato che sia in attacco che in difesa fa molta fatica ad imporsi nel pitturato, nonostante la statura. Ed il fatto che abbia collezionato sin qui soltanto tre doppie-doppie e le medie poco appariscenti di 6.3 rimbalzi e 1.5 stoppate sono un dato eloquente. Riesce quasi ad essere più efficace nell’accoppiarsi con gli esterni sul perimetro che nel difendere i lunghi vicino canestro.

Il futuro parte dalla testa

Il salto di qualità sembra dipendere quasi esclusivamente dall’aspetto mentale. Deve acquisire consapevolezza nei suoi mezzi tanto fisici quanto tecnici, perché il potenziale non si discute minimamente. Oltretutto già a questa età è ambidestro, perché da adolescente si ruppe la mano sinistra e, per riacquistarne la massima sensibilità senza separarsi dal basket, iniziò ad usarla per palleggiare e tirare. E ora chi non lo conosce spesso sbaglia a indicare la sua mano forte. Il prossimo Nba draft sarà pieno zeppo di esterni, soprattutto play, e dunque un giocatore che combina dimensioni e abilità come lui fa gola a parecchi. E per questo viene dato in piena lottery.

Coach McDermott appena ha fiutato il forte interesse degli scout ha chiamato il ragazzo nel suo ufficio insieme alla famiglia. E gli ha fatto il discorsetto che getta acqua sul fuoco, ma qualsiasi sarà la sua decisione a fine stagione, gli ha raccomandato “work hard and stay humble”. Adesso la scelta tocca a lui. Un fatto è certo, la vita di Justin Patton si sta avviando verso un drastico cambiamento che è già in atto. Infatti quel ragazzino che vendeva per strada limonate, dopo una stagione da 13.1+6.3 è stato nominato Big East Freshman of the Year. E adesso non può più andare ad una semplice partita di bambini che viene riconosciuto e fermato, anche quando nasconde il viso sotto il cappuccio della felpa.




* per BASKETBALLNCAA.COM - Link originale

giovedì 2 marzo 2017

March Madness 2017

March Madness 2017

Il mese di marzo è arrivato, e allora cresce la febbre da March Madness. Il campionato Ncaa sta giungendo al proprio clou, e non c'è più tempo per fermarsi a pensare. Chi si ferma è perduto, recita l'adagio, e in questa situazione cade davvero a pennello. Di seguito un'analisi su quelle che saranno le varie fasi della "follia di marzo", dalla Champ Week alla Big Dance. In continuo aggiornamento!



Champ Week

Qualsiasi sia stata la posizione in regular season, chi vince il torneo di conference conquista la qualificazione diretta (auto-bid) al Torneo Ncaa al quale accedono 32 auto-bid e 36 squadre selezionate da un'apposita commissione ovviamente per meriti sportivi.


America East  Vermont Catamounts

American    9-12 marzo

Atlantic 10    8-12 marzo



Big East  Villanova Wildcats


Big South  Winthrop Eagles

Big Ten    8-12 marzo

Big West  U.C. Davis Aggies




Ivy League    11-12 marzo

MAAC  Iona Gaels



Missouri Valley  Wichita State Shockers

Mountain West  Nevada Wolf Pack




Patriot  Bucknell Bison

SEC    8-12 marzo




Sun Belt    10-12 marzo



West Coast  Gonzaga Bulldogs

mercoledì 1 marzo 2017

2017 NBA Mock Draft



2017 NBA Mock Draft

Aggiornamento: 01/03/2017. Pareri, sensazioni, idee sparse e soprattutto "statistiche alla mano" in vista del prossimo NBA Draft in programma il prossimo 22 giugno 2017.

First round

1. Boston Celtics - Markelle Fultz (Pg - Freshamn)
Dai Brooklyn Nets (diritto di scambio pro Celtics)

2. Phoenix Suns - Josh Jackson (Sf - Freshman)


3. Los Angeles Lakers - Lonzo Ball (Pg - Freshamn)

Top 3 protected altrimenti va ai Philadelphia Sixers

4. Orlando Magic - Dennis Smith (Pg - Freshman)


5. Philadelphia Sixers - Malik Monk (Sg - Freshamn)
(diritto di scambio coi Sacramento Kings)

6. Sacramento Kings - Jayson Tatum (Sf - Freshman)
Dai New Orleans Pelicans

7. Dallas Mavericks - Lauri Markkanen (Pf - Freshman)
Ai Philadelphia Sixers se non top 18 protected

8. Minnesota Timberwolves - Jonathan Isaac (Sf - Freshman)

9. Portland Trail-Blazers - Frank Ntilikina (Sg - International)

10. New York Knicks - De'Aaron Fox (Pg - Freshman)

11. Chicago Bulls - Justin Patton (C - Freshman)

Dai Sacramento Kings (top 10 protected)

12. Charlotte Hornets - Miles Bridges (Pf - Freshman)


13. Milwaukee Bucks - Robert Williams (Pf - Freshman)


14. Miami Heat - T.J. Leaf - (Pf - Freshman)


15. Denver Nuggets - Ivan Rabb (Pf - Sophomore)


16. Detroit Pistons - John Collins (Pf - Sophomore)

17. Chicago Bulls - Isaiah Hartenstein (Pf - International)


18. Indiana Pacers - Jarrett Allen (Pf - Freshman)


19. Atlanta Hawks - Terrance Ferguson (Sg - International)

20. Oklahoma City Thunder - Edrice Adebayo (C - Freshman)

21. Brooklyn Nets - Harry Giles (Pf - Freshman)
Dai Washington Wizards

22. Portland Trail-Blazers - Luke Kennard (Sg - Sophomore)
Dai Memphis Grizzlies via Denver Nuggets

23. Orlando Magic - Caleb Swanigan (C - Sophomore)
Dai Los Angeles Clippers via Toronto Raptors

24. Toronto Raptors - Justin Jackson (Sf - Junior)

25. Utah Jazz - Johnathan Motley (Pf - Junior)

26. Brooklyn Nets - Dwayne Bacon (Sg - Sophomore)

Dai Boston Celtics (diritto di scambio pro Celtics)

27. Portland Trail-Blazers - Tyler Lydon (Pf - Sophomore)

Dai Cleveland Cavaliers

28. Los Angeles Lakers - Donovan Mitchell (Sg - Sophomore)

Dagli Houston Rockets

29. San Antonio Spurs - Rodions Kurucs (Sf - International)

30. Utah Jazz - Allonzo Trier (Sg - Sophomore)

Dai Golden State Warriors