venerdì 10 giugno 2022

Affari di famiglia. Da Luigi a Francesco Rapini, 80 anni di grande basket

La Rapini Dynasty: Il nonno, cinque scudetti con le V nere, prima figura significativa di 'Basket city', ha lanciato il minibasket e allenato a lungo a Rimini

Da Luigi a Francesco Rapini, 80 anni di grande basket

Il nipote ha già vinto tre scudetti di categoria con la Stella Azzurra. In mezzo Andrea, grande tiratore, giocatore, coach e presidente. In panchina con la Lazio, cinque promozioni in sette anni



di Giovanni Bocciero*



DAGLI SCUDETTI del dopoguerra di nonno Luigi, pivot della gloriosa Virtus Bologna, a quelli giovanili del nipote Francesco, guardia dell’altrettanto blasonata Stella Azzurra Roma. Nel mezzo c’è Andrea, figlio di Luigi e papà di Francesco, che le sue soddisfazioni se l’è comunque tolte lanciando il pallone nel cesto. Stiamo parlando della famiglia Rapini, terza ed ultima dinastia della pallacanestro italiana che può vantare la peculiarità di avere tre generazioni che hanno giocato e giocano ad alto livello, dopo quelle Pomilio/Fontecchio e Busca (leggi qui). A differenza di queste due, delle cui storie abbiamo trattato nei numeri precedenti della rivista, la famiglia Rapini ha davvero un amore sconfinato per la pallacanestro, avendola non solo giocata ma anche ‘insegnata’.

«Mio padre Luigi ha portato la pallacanestro a Bologna sia da giocatore che come istruttore - ha commentato il figlio Andrea -, perché è stato precursore nel far praticare il minibasket e a farne svolgere il primo trofeo. E poi è stato il fautore del gesto tecnico che tutti oggi conoscono come il gancio». Luigi Rapini, mancato purtroppo nel 2013 all’età di 89 anni, ha vinto cinque scudetti dal 1946 al 1949 e del 1954/55 con le ‘V nere’, collezionando anche 33 presenze (e 134 punti) in maglia azzurra quando la nazionale centellinava gli impegni. È stato il primo grande pivot italiano, ma soprattutto un autentico pioniere della pallacanestro contribuendo in maniera significativa alla leggenda di Bologna quale ‘Basket city’. «L’amore per il basket l’ha tramandato in famiglia e rimane in tutti noi. Era innamorato della pallacanestro. Quando ha smesso di giocare lavorava in banca, e nonostante ciò - ha continuato Andrea - andava cinque giorni alla settimana a Rimini per allenare. E parlo dei tempi in cui non esisteva il professionismo».

Come il papà Luigi, anche Andrea ha mosso i primi passi nella Virtus Bologna, «che poi mi ha prestato alla società satellite del Castiglione dove ho giocato prima in serie C e poi in serie B. Successivamente mi sono trasferito a Vigna di Valle per fare il militare nelle Forze Armate. Poi mi ha acquistato l’Italcable che era la terza formazione di Roma. Siccome però all’epoca c’era la regola che una stessa città non poteva avere tre squadre in massima serie, ci allenavamo nella capitale ma giocavamo a Perugia. Poi anche per questioni legate alla famiglia ed al lavoro ho deciso di scendere in serie B, categoria che aveva ancora il girone unico. Una volta smesso ho continuato comunque a giocare a livello dilettantistico con una squadra di Promozione vicino ad Anguillara, dove abitavo. Dopodiché l’allora presidente della Lazio, Federico Nizza, dopo che la squadra era retrocessa in Promozione mi coinvolse nel progetto di rilancio del club al quale sono stato molto contento di contribuire».

Infatti, come Luigi anche Andrea, una volta appese le scarpette al chiodo, ha deciso di intraprendere la carriera di allenatore prima e di dirigente poi per non lasciare il mondo del basket. «Il mio percorso nella pallacanestro ha seguito lo scandire dell’età, per quelle che possono essere le fasi di una persona che vive questo sport. Ho iniziato da giocatore, poi giocatore-allenatore, poi solo allenatore e infine presidente. Diciamo che le più grandi soddisfazioni me le sono tolte da allenatore della Lazio, raccogliendo con un po’ di fortuna e un po’ di strategia cinque promozioni in sette anni dalla Promozione alla serie B2. Una cavalcata che mi rimarrà per sempre. Da giocatore ho ottenuto altre soddisfazioni, ma sono legate a quelle che potevano essere le caratteristiche e le qualità o meno che si possedevano». Andrea era un realizzatore, capace di mettere a segno anche 51 punti in uno spareggio per la serie B. E all’epoca il tiro da tre punti non esisteva ancora.

«Sono nato quando mio padre aveva già smesso. Però pur non vedendolo giocare ho vissuto tanto la pallacanestro con lui perché da ragazzino mi portava al vecchio campo all’aperto della Virtus. Quando poi ero adolescente, andavo spesso a fare i ritiri con la squadra di Rimini. Quindi anche se ero piccolo l’ho vissuto soprattutto come allenatore. Chiaramente mi ha dato da un punto di vista tecnico un sacco di nozioni, e in particolare con la vecchia metodologia di una volta che voleva dire ripetere uno stesso esercizio migliaia di volte finché non lo facevi diventare tuo. Dal punto di vista tattico invece, mi ha aiutato quando ho fatto l’allenatore, perché ci siamo sempre molto confrontati e gli devo dare atto che su di me ha fatto proprio un gran bel lavoro. Lo considero ancora oggi il mio allenatore privilegiato».

LA PASSIONE per il basket non ha saltato una generazione in casa Rapini. «Ho quattro figli - ha proseguito Andrea -. Il primo è Alessandro, 37 anni, che ha giocato a basket ma per questioni di studio ha smesso. La seconda è Alessia, 34 anni, alla quale la pallacanestro non è mai interessata granché. Il terzo è Lorenzo, 21 anni, che gioca in Promozione ma a calcio. Ha cambiato sport ma non mi dispiace perché non ho mai influenzato le loro scelte. L’ultimo è Francesco, classe 2004, che sta ottenendo dei discreti risultati, ma non lo devo dire io che sono il papà».

Francesco e Andrea Rapini

Impegnato con la Stella Azzurra tra under 19 Eccellenza e serie C Gold, Francesco ha già vinto tre campionati giovanili nazionali. «Con Francesco mi confronto molto, soprattutto cerco di fargli capire che deve sempre seguire il lavoro che hanno programmato i suoi allenatori. Poi è evidente che quando c’è l’opportunità un consiglio glielo d’ho volentieri. Ma la realtà della Stella Azzurra prevede che sin da giovani i ragazzi si comportino come dei professionisti, con diversi allenamenti nell’arco della stessa giornata, tornei all’estero, tutta una serie di attività psicologiche che riguardano l’attenzione e la velocità di reazione a determinati stimoli. Per cui, gli sto al fianco ma senza influire sul lavoro che fa con il suo club. Ed è giusto così perché altrimenti si ritroverebbe ad avere dei linguaggi completamente differenti. D’estate poi andiamo spesso a fare due tiri al campetto e lo aiuto magari nel migliorare al tiro o in altri particolari. Da questo punto di vista - ha raccontato Andrea Rapini - se io ho avuto mio padre che è stato il mio allenatore privilegiato, io sono per mio figlio più un allenatore di supporto».

Ma c’è qualcosa che vi accomuna tecnicamente? «Vedo una grande somiglianza tra me e mio figlio da un punto di vista di visione della pallacanestro, nel senso di riuscire a capire cosa sta accadendo in campo. E poi nel tiro, anche se sono stato un grande tiratore ma la difesa non era il mio massimo. Mio padre invece era uno che ha fatto del basket anche un modo per fare esperienza. Mi spiego, lui guardava i movimenti dei giocatori americani, per quello che si poteva vedere all’epoca, e si metteva sul campo da solo a provare. Questo lo portava ad essere un grande competente in materia. Io però l’ho sempre ammirato nel ruolo di allenatore, perché al di là del suo stare in panchina con quell’aplomb inglese al contrario degli esagitati che ci sono oggi, riusciva sempre a fare l’intervento giusto al momento giusto. Vuoi una scelta di una sostituzione o il cambio di una difesa. Era uno che sentiva la pallacanestro».

Le maggiori differenze sono soprattutto fisiche, segno di una pallacanestro che è man mano cambiata, che si è evoluta. «Se io rispetto a mio padre sembravo un superman, i giocatori di oggi sono dei superman all’ennesima potenza. Fisicamente sono delle ‘bestie’, come si usa dire nel gergo del basket. Hanno dei fisici spaventosi che gli permettono di correre e saltare, arrivando a schiacciare con due passi e con entrambe le mani. Noi invece sotto questo aspetto facevamo poco lavoro e forse anche male. Ma questo lo dico oggi perché vedo come lavorano i ragazzi, ma ai miei tempi anche quel poco che facevamo mi sembrava tanto. Per fare un esempio, mio padre i pesi non sapeva neanche cosa fossero. Per me invece il lavoro fisico era fare degli squat con 70-80 chili. Oggi invece hanno dei programmi in cui fanno training fisico tutti i giorni più l’allenamento di un’ora e mezza. Diciamo che questo però ha influito su un minor tasso tecnico».

DAL CAMPO alla panchina alla scrivania, Andrea Rapini ha vissuto la pallacanestro a 360° avendo ricoperto addirittura il ruolo di presidente della Lazio. Una vita che oggi gli permette di fare un’accurata valutazione dei diversi punti di vista. «L’argomento non è di facile lettura e non è neppure semplice riassumerlo perché le tematiche sono completamente diverse. Quando sei giocatore devi pensare a quello che è il risultato immediato, dell’annata, forse più a livello personale che di squadra. Da dirigente invece, bisogna avere la grande capacità di vedere il momento e nel contempo cercare di capire cosa bisogna fare per il domani. Poi è necessario sapere con che mansioni e competenze si fa il dirigente o il presidente, perché è importante anche il discorso empatico, ovvero le capacità di influire nel formare il tanto decantato gruppo. Poi sono importanti i rapporti per poter avere i mezzi economici e finanziari per poter portare la società sempre avanti e sempre meglio nel suo percorso di crescita. La visione dell’allenatore forse è quella più complessa, perché deve ottenere dei risultati, avere uno sguardo al futuro per capire quale giocatore gli possa essere utile domani, e nel contempo deve riuscire a non scontentare nessuno. Questo fa sì che debba avere con i giocatori un rapporto logicamente tecnico-tattico, ma anche un legame come fosse un padre. Credo che questo rapporto tra giocatore e allenatore non finisce quando termina l’allenamento, ma nel momento in cui il giocatore non ha più bisogno di lui anche da un punto di vista psicologico. La grossa difficoltà dei tre ruoli è quello di non inficiare la posizione dell’altro. Che il presidente vada a dire all’allenatore cosa bisogna fare credo che sia la cosa peggiore che possa esserci».

Oggi Andrea non ricopre ruoli ufficiali nella pallacanestro, e per questo si limita a seguire il figlio nella sua ancor giovane carriera. Eppure, la sua esperienza cestistica associata alla sua attività lavorativa gli permettono comunque di trovare una scusante per poter fare scuola. «Mi è capitato di fare dei discorsi motivazionali ai ragazzi, perché c’è un parallelo con la mia attività lavorativa. Avendo fatto selezioni, reclutamento e formazione per conto di Banca Mediolanum, il discorso della motivazione per raggiungere un obiettivo è uguale per qualsiasi ambito, tanto lavorativo quanto sportivo. Quindi ho tenuto molto volentieri queste lezioni. Resta comunque un modo per rimanere nell’ambito della pallacanestro, e chissà, magari nella mia seconda vita può darsi anche che ricominci ad allenare. In questo momento però, mi diletto a capire le grosse differenze che ci sono - ha concluso Andrea Rapini - soprattutto dal punto di vista della preparazione fisica da quello che eravamo noi e quello che sono oggi gli atleti».


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