Da vent'anni, e dal tramonto degli ultimi grandi pivot di ruolo, l'Italia è a digiuno di medaglie: solo con un punto di riferimento importante sotto canestro la nazionale è riuscita a conquistare i risultati migliori
Nino Calebotta il primo gigante della nostra pallacanestro, Dino Meneghin la leggenda, la coppia Marconato e Chiacig gli ultimi esemplari. Servono coraggio e creatività per non soffrire la mancanza di lunghi
di Giovanni Bocciero e Matteo Cappelli*
“Cerco centro di gravità permanente”,
cantava il maestro Franco Battiato. Il centro, o pivot, termine un po’ desueto
oramai, per lunghi tratti della storia della pallacanestro ha inciso e deciso
il gioco. Anche per quel che riguarda la nazionale italiana, che ha centrato i
risultati più importanti potendo schierare un lungo di alto livello. Da Dino
Meneghin perno dell’Italbasket prima medaglia d’argento alle Olimpiadi di Mosca
1980 e poi d’oro agli Europei del 1983, alla coppia Denis Marconato e Roberto
Chiacig fondamentali per la medaglia più preziosa agli Europei del 1999 e poi
per quella d’argento alle Olimpiadi di Atene 2004.
Certo, oggi il gioco è evoluto, si è trasformato, e magari le competenze dei centri sono da dividersi con il resto della squadra. Basti pensare ai rimbalzi, un fondamentale che prima magari era prerogativa dei giocatori lunghi, mentre adesso è spesso una questione di squadra. Già soltanto pensare al grande abuso del tiro da tre - sul quale abbiamo fatto un’inchiesta proprio nel numero precedente di BM -, produce un numero elevato di rimbalzi lunghi che sono fuori portata dei centri e sui quali devono avventarsi gli esterni. Ma proviamo ad andare alle origini del ruolo, e a capirne l’importanza nel contesto odierno, soffermandoci ovviamente in ottica azzurra.
Valerio Bianchini, tre scudetti ed una
Coppa Italia con Cantù, Roma, Pesaro e Fortitudo Bologna, oltre a quattro
trofei internazionali, è stato ct dell’Italia per il biennio 1985-1987. Diamo
la definizione di centro?
«Nell’immaginario, il centro è un uomo
grande e grosso, rimbalzista e stoppatore. Nel vecchio stile del basket era
molto importante, oggi è però sparito come ruolo. Era prezioso perché il gioco
si basava molto sull’asse composto dal play e dal pivot, ed entrambi erano dei
creatori pur con competenze e posizioni differenti. Un lungo, infatti, giocando
sotto e spalle a canestro spesso facilitava il gioco dietro la difesa,
suggerendo ad esempio i tagli. Un elemento che ha portato alla sua estinzione come
ruolo è stato il pick and roll. Questo porta il centro a dover salire ben oltre
la linea dei tre punti per poi tagliare forte sfruttando il mismatch oppure per
prendere il rimbalzo».
«Tutto ciò, in maniera epidemica - ha sottolineato il vate -, ha strappato il centro dall’occupare la posizione in post basso. Non lavorando più su questo fondamentale aspetto del gioco, quando un lungo riceve palla in quella posizione non ha la tecnica per usare i perni ma cerca un ingresso in area di forza. Ed è diventata una grande perdita per la qualità del gioco. Mettiamoci poi la psicosi del tiro da tre, ormai utilizzatissimo anche dai centri, che per caratteristiche anche morfologiche vi si addice di più rispetto al dover battagliare sotto canestro».
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Denis Marconato con Dino Meneghin |
Quando nella pallacanestro si parla
della mancanza di centri, spesso si indica la pallavolo come colpevole di
rubarci i ragazzi più alti. È verità?
«La pallavolo ha una maggiore presenza
nelle scuole, e così vengono segnalati i ragazzi che hanno più qualità fisiche
adatte alla disciplina. Nella pallacanestro il reclutamento avviene attraverso
il minibasket, un movimento meritorio che è basato però sul pagamento delle
quote da parte delle famiglie, e che quindi diventa una limitazione spaventosa.
Il basket non mette in campo nessuna azione di penetrazione nelle scuole. E va
anche detto che alzare una rete e giocare a pallavolo è più semplice, senza
possibilità di contatti e conseguenti infortuni».
«Potrebbe essere un cavallo di Troia
per l’intero movimento il basket 3v3 – ha osservato lo storico coach -, perché
spesso i ragazzi si autoregolano senza avere necessità dei professori. La
maggior parte dei quali non sa neppure da dove iniziare con la pallacanestro
perché si tratta di un gioco complesso. C’è bisogno del controllo del corpo, di
quello della palla e in generale del gioco collettivo, per nulla naturale
rispetto al calcio o al volley. Mettere un canestro in un angolo della
palestra, o nel campetto all’aperto potrebbe essere la soluzione per far
nascere la passione da coltivare e far sviluppare successivamente in un club».
Però qualche giocatore c’è. Ad
esempio, Caruso è stato medaglia d’argento al Mondiale Under 17 in Egitto nel
2017, mentre Totè è stato nominato Mvp del Fiba European Under 18 in occasione
dell’Europeo 2015. Eppure, da giovani promesse né l’uno né l’altro sono riusciti
a trovare spazio o ad esplodere definitivamente?
«Il sistema professionistico non è
fatto per sviluppare il talento dei giovani. È fatto per utilizzare al massimo
le possibilità che ha un giocatore di trovare spazio in squadra. In Italia
succede che un club come Milano o Bologna prenda i migliori giovani per
occupare i posti da giocatori formati senza però farli giocare. Questo è un
male endemico anche in A2, dove gli allenatori sono sempre più precari e
marginali, ma anche timorosi per cui non lanciano più i giovani».
«Tutto questo è anche causa del fatto
che al termine del percorso giovanile - ha analizzato il tecnico due volte
campione d’Europa con Cantù e Roma -, i ragazzi anche promettenti vengono
gettati nel calderone dei campionati dilettantistici, che in realtà sono
semiprofessionistici ma vengono così mascherati. S’interrompe la loro
maturazione, proprio perché non c'è un campionato deputato. Ci vorrebbe una visione,
ma al momento il mondo del basket non ce l’ha».
Ma c’è bisogno del centro per vincere,
anche e soprattutto in ottica nazionale, visto che i migliori risultati azzurri
sono arrivati con giocatori come Meneghin, Marconato e Chiacig in squadra?
«Per quanto riguarda la nazionale, c’è
da dire che oltre ad una mancanza fisica, e quindi in assenza di giocatori di
stazza, i pivot non hanno neppure la tecnica, cosa sempre più rara. Però non ci
si può arrendere a questa mancanza, perché si può giocare anche con dei
giocatori non altissimi, quasi esterni, che sanno creare spazio per le
penetrazioni ed essere pericolosi al tiro. Con l’evoluzione del gioco ci
possono essere alternative al pivot puro, ma bisogna avere le capacità per
permettere alla squadra di giocare in maniera differente rispetto alla
pallacanestro tradizionale».
«Un sistema da poter adottare è quello
di affrontare gli avversari con più movimento, sia della palla che senza,
sfruttando questi lunghi più dinamici in modo da creare spazi per le penetrazioni
degli esterni. Ma non è facile - ha osservato Bianchini - perché la nazionale
ha sempre poco tempo per sviluppare un gioco collettivo. E purtroppo ritengo
che ancora per molti anni non avremo un pivot decente, per cui lo cercheremo in
America. Ammesso che venga a giocare per noi».
Nino Calebotta è stato il primo
gigante della pallacanestro azzurra. Alto 2.04 metri, di origini balcaniche ma
cresciuto a Milano, è a Bologna sponda Virtus che si è fatto apprezzare per le
sue qualità negli anni 50’ e 60’ partecipando anche alle Olimpiadi di Roma. È
poi seguito Ottorino Flaborea, pivot bonsai di 1.97 metri, che con Varese ha
vissuto gli anni migliori e vinto tutto, e più di una volta, tra cui scudetto,
Coppa Italia, Coppa dei Campioni, Coppa Intercontinentale e Coppa delle Coppe. Alberto
Merlati, 2.04 metri, ha invece vestito le maglie di Cantù, Gorizia, Venezia e
Torino oltre a quella azzurra della nazionale.
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Roberto Chiacig |
Dino Meneghin, 2.05 metri di statuaria
concretezza, il pivot per antonomasia quando si parla di centri italiani e
della nazionale. Leggenda di Varese e Milano, con le quali ha messo insieme 12
scudetti, 6 Coppe Italia e 7 Coppe dei Campioni che ancora oggi rappresentano
il record personale per un singolo giocatore. E poi, ovviamente, i grandi
successi in azzurro. Come non ricordare i 2.12 metri di Luciano Vendemini,
purtroppo stroncato in campo a causa di una malformazione cardiaca che aveva
vestito le maglie di Cantù, Rieti e Torino.
«La maggior parte dei centri erano
comunque americani anche prima - ha ricordato il vate Bianchini -. Quando ho
allenato Roma, ad esempio, avevo Kim Hughes insieme a Fulvio Polesello. Tutti
cercavano il lungo straniero, proprio perché la mancanza di ragazzi alti è
sempre stato un problema endemico del basket italiano». Ario Costa, con i suoi
2.11 metri, ha segnato l’epopea di Pesaro con due scudetti e due Coppe Italia,
ed ha rappresentato il primo centro moderno.
Denis Marconato (2.11) e Roberto
Chiacig (2.10), entrambi vivaio Treviso prima di girovagare in lungo e in largo
per lo stivale, sono stati gli ultimi centri con fisico e stazza, capaci di
prendere posizione spalle a canestro. Contribuendo fattivamente alle ultime
medaglie di prestigio dell’Italbasket. Andrea Bargnani (2.13), prima scelta
assoluto del draft Nba 2006, ha rappresentato la vera rivoluzione del ruolo con
le sue capacità balistiche che lo hanno portato a giocare oltre l’arco. Senza
però incidere a livello di vittorie con la nazionale.
«La pallacanestro non va più di
moda in Italia», questo il commento di Bogdan Tanjevic, ex coach
della nazionale azzurra sulla crisi dei lunghi nel basket italiano. «Non
è un caso che nella pallavolo ci sia stata un'esplosione di talenti sopra i 195
cm. Hanno sicuramente fatto qualcosa meglio di noi e soprattutto è più facile
emergere».
Uno sviluppo quello dei lunghi italiani che di anno in anno tarda ad arrivare,
con esempi come Caruso rilegati in panchina o Totè che il ct Pozzecco non
sembra vedere.
«Caruso per me ha fatto una
scelta sbagliata, ma lo capisco, sicuramente Milano ha offerto delle cifre che
le piccole-medie squadre non possono pareggiare. Il sistema è sbagliato, perché
dovrebbe proteggere le squadre che non possono competere economicamente con le
super potenze. I club sono costretti a vendere prima che effettivamente i
prodotti dei vivai, o i giovani in generale, possano aver dato loro frutti. Su
Totè invece, Pozzecco non ha un compito facile, ci sono passato. Difficile
sfaldare un gruppo per inserire un nuovo giocatore. È più giusto forse puntare
sulla continuità».
Un esempio, quello
dell'Italbasket del passato che fa sì che da noi abbiano imparato Francia,
Germania e Spagna, per poi addirittura superarci in tutto. Di pensiero
leggermente diverso è Sandro Gamba, anche lui ex giocatore ed ex coach
della nazionale azzurra, che sostiene che al problema che si presenta bisogna
trovare una soluzione, e non necessariamente sulle convocazioni: «Anche
quando giocavo io eravamo senza il centro super fisico di oltre due metri.
Negli anni 50’, infatti, abbiamo giocato spesso pressing a tutto campo ed
abbiamo alzato il ritmo sfruttando i lati positivi dei nostri fisici».
«Dipende dai tecnici, è una
variabile, ogni allenatore deve fare il meglio possibile con la squadra che ha
ed adattare le tattiche a seconda del roster a disposizione. Bisogna anche
cambiare un po' con i giovani, magari metterli in campo e farli arrangiare, poi
togliergli e spiegare l'errore». Una nazionale, dunque, che continua
la disperata ricerca di un lungo che possa dare un futuro al ruolo in maglia azzurra,
vista anche l'età che inizia ad avere ad esempio Nicolò Melli, fino ad ora
inamovibile lungo dell’Italbasket.
Da Calebotta a Melli, gli anni ruggenti dell’Italia con centri veri
Nino Calebotta, 2.04, 1952 - 1968; 65 presenze e 410 punti;
Ottorino Flaborea, 1.95, 1957 - 1978; 129 presenza e 747 punti;
Alberto Merlati, 2.04, 1965 - 1975; 30 presenze e 123 punti;
Dino Meneghin, 2.04, 1965 - 1994; 271 presenze e 2947 punti;
Luciano Vendemini, 2.11, 1971 - 1977; 44 presenze e 157 punti;
Luigi Serafini, 2.10, 1971 - 1979; 112 presenze e 524 punti;
Vittorio Ferracini, 2.04, 1973 - 1982; 128 presenza e 504 punti;
Renzo Vecchiato, 2.07, 1977 - 1985; 201 presenze e 1439 punti;
Ario Costa, 2.11, 1977 - 1997; 193 presenze e 1048 punti;
Pietro Generali, 2.07, 1978 - 1983; 71 presenze e 458 punti;
Augusto Binelli, 2.15, 1984 - 1989; 95 presenze e 590 punti;
Flavio Carera, 2.06, 1985 - 1997; 129 presenze e 602 punti;
Stefano Rusconi, 2.08, 1987 - 1995; 94 presenze e 767 punti;
Denis Marconato, 2.11, 1990 - 2006; 195 presenze e 1140 punti;
Alessandro Frosini, 2.09, 1992 - 1998; 98 presenze e 584 punti;
Roberto Chiacig, 2.10, 1994 - 2022; 188 presenze e 1475 punti;
Andrea Bargnani, 2.13, 2002 - 2017; 73 presenze e 1129 punti;
Nicolò Melli, 2.05, 2007 - presente; 124 presenze e 834 punti.
* per la rivista Basket Magazine