venerdì 25 aprile 2025

Nazionale in sofferenza: alla ricerca del centro perduto

 

Da vent'anni, e dal tramonto degli ultimi grandi pivot di ruolo, l'Italia è a digiuno di medaglie: solo con un punto di riferimento importante sotto canestro la nazionale è riuscita a conquistare i risultati migliori

Alla ricerca del centro perduto

Nino Calebotta il primo gigante della nostra pallacanestro, Dino Meneghin la leggenda, la coppia Marconato e Chiacig gli ultimi esemplari. Servono coraggio e creatività per non soffrire la mancanza di lunghi


di Giovanni Bocciero e Matteo Cappelli*


 

“Cerco centro di gravità permanente”, cantava il maestro Franco Battiato. Il centro, o pivot, termine un po’ desueto oramai, per lunghi tratti della storia della pallacanestro ha inciso e deciso il gioco. Anche per quel che riguarda la nazionale italiana, che ha centrato i risultati più importanti potendo schierare un lungo di alto livello. Da Dino Meneghin perno dell’Italbasket prima medaglia d’argento alle Olimpiadi di Mosca 1980 e poi d’oro agli Europei del 1983, alla coppia Denis Marconato e Roberto Chiacig fondamentali per la medaglia più preziosa agli Europei del 1999 e poi per quella d’argento alle Olimpiadi di Atene 2004.

Certo, oggi il gioco è evoluto, si è trasformato, e magari le competenze dei centri sono da dividersi con il resto della squadra. Basti pensare ai rimbalzi, un fondamentale che prima magari era prerogativa dei giocatori lunghi, mentre adesso è spesso una questione di squadra. Già soltanto pensare al grande abuso del tiro da tre - sul quale abbiamo fatto un’inchiesta proprio nel numero precedente di BM -, produce un numero elevato di rimbalzi lunghi che sono fuori portata dei centri e sui quali devono avventarsi gli esterni. Ma proviamo ad andare alle origini del ruolo, e a capirne l’importanza nel contesto odierno, soffermandoci ovviamente in ottica azzurra.

Valerio Bianchini, tre scudetti ed una Coppa Italia con Cantù, Roma, Pesaro e Fortitudo Bologna, oltre a quattro trofei internazionali, è stato ct dell’Italia per il biennio 1985-1987. Diamo la definizione di centro?

«Nell’immaginario, il centro è un uomo grande e grosso, rimbalzista e stoppatore. Nel vecchio stile del basket era molto importante, oggi è però sparito come ruolo. Era prezioso perché il gioco si basava molto sull’asse composto dal play e dal pivot, ed entrambi erano dei creatori pur con competenze e posizioni differenti. Un lungo, infatti, giocando sotto e spalle a canestro spesso facilitava il gioco dietro la difesa, suggerendo ad esempio i tagli. Un elemento che ha portato alla sua estinzione come ruolo è stato il pick and roll. Questo porta il centro a dover salire ben oltre la linea dei tre punti per poi tagliare forte sfruttando il mismatch oppure per prendere il rimbalzo».

«Tutto ciò, in maniera epidemica - ha sottolineato il vate -, ha strappato il centro dall’occupare la posizione in post basso. Non lavorando più su questo fondamentale aspetto del gioco, quando un lungo riceve palla in quella posizione non ha la tecnica per usare i perni ma cerca un ingresso in area di forza. Ed è diventata una grande perdita per la qualità del gioco. Mettiamoci poi la psicosi del tiro da tre, ormai utilizzatissimo anche dai centri, che per caratteristiche anche morfologiche vi si addice di più rispetto al dover battagliare sotto canestro».

Denis Marconato con Dino Meneghin

Quando nella pallacanestro si parla della mancanza di centri, spesso si indica la pallavolo come colpevole di rubarci i ragazzi più alti. È verità?

«La pallavolo ha una maggiore presenza nelle scuole, e così vengono segnalati i ragazzi che hanno più qualità fisiche adatte alla disciplina. Nella pallacanestro il reclutamento avviene attraverso il minibasket, un movimento meritorio che è basato però sul pagamento delle quote da parte delle famiglie, e che quindi diventa una limitazione spaventosa. Il basket non mette in campo nessuna azione di penetrazione nelle scuole. E va anche detto che alzare una rete e giocare a pallavolo è più semplice, senza possibilità di contatti e conseguenti infortuni».

«Potrebbe essere un cavallo di Troia per l’intero movimento il basket 3v3 – ha osservato lo storico coach -, perché spesso i ragazzi si autoregolano senza avere necessità dei professori. La maggior parte dei quali non sa neppure da dove iniziare con la pallacanestro perché si tratta di un gioco complesso. C’è bisogno del controllo del corpo, di quello della palla e in generale del gioco collettivo, per nulla naturale rispetto al calcio o al volley. Mettere un canestro in un angolo della palestra, o nel campetto all’aperto potrebbe essere la soluzione per far nascere la passione da coltivare e far sviluppare successivamente in un club».

Però qualche giocatore c’è. Ad esempio, Caruso è stato medaglia d’argento al Mondiale Under 17 in Egitto nel 2017, mentre Totè è stato nominato Mvp del Fiba European Under 18 in occasione dell’Europeo 2015. Eppure, da giovani promesse né l’uno né l’altro sono riusciti a trovare spazio o ad esplodere definitivamente?

«Il sistema professionistico non è fatto per sviluppare il talento dei giovani. È fatto per utilizzare al massimo le possibilità che ha un giocatore di trovare spazio in squadra. In Italia succede che un club come Milano o Bologna prenda i migliori giovani per occupare i posti da giocatori formati senza però farli giocare. Questo è un male endemico anche in A2, dove gli allenatori sono sempre più precari e marginali, ma anche timorosi per cui non lanciano più i giovani».

«Tutto questo è anche causa del fatto che al termine del percorso giovanile - ha analizzato il tecnico due volte campione d’Europa con Cantù e Roma -, i ragazzi anche promettenti vengono gettati nel calderone dei campionati dilettantistici, che in realtà sono semiprofessionistici ma vengono così mascherati. S’interrompe la loro maturazione, proprio perché non c'è un campionato deputato. Ci vorrebbe una visione, ma al momento il mondo del basket non ce l’ha».

Ma c’è bisogno del centro per vincere, anche e soprattutto in ottica nazionale, visto che i migliori risultati azzurri sono arrivati con giocatori come Meneghin, Marconato e Chiacig in squadra?

«Per quanto riguarda la nazionale, c’è da dire che oltre ad una mancanza fisica, e quindi in assenza di giocatori di stazza, i pivot non hanno neppure la tecnica, cosa sempre più rara. Però non ci si può arrendere a questa mancanza, perché si può giocare anche con dei giocatori non altissimi, quasi esterni, che sanno creare spazio per le penetrazioni ed essere pericolosi al tiro. Con l’evoluzione del gioco ci possono essere alternative al pivot puro, ma bisogna avere le capacità per permettere alla squadra di giocare in maniera differente rispetto alla pallacanestro tradizionale».

«Un sistema da poter adottare è quello di affrontare gli avversari con più movimento, sia della palla che senza, sfruttando questi lunghi più dinamici in modo da creare spazi per le penetrazioni degli esterni. Ma non è facile - ha osservato Bianchini - perché la nazionale ha sempre poco tempo per sviluppare un gioco collettivo. E purtroppo ritengo che ancora per molti anni non avremo un pivot decente, per cui lo cercheremo in America. Ammesso che venga a giocare per noi».

Nino Calebotta è stato il primo gigante della pallacanestro azzurra. Alto 2.04 metri, di origini balcaniche ma cresciuto a Milano, è a Bologna sponda Virtus che si è fatto apprezzare per le sue qualità negli anni 50’ e 60’ partecipando anche alle Olimpiadi di Roma. È poi seguito Ottorino Flaborea, pivot bonsai di 1.97 metri, che con Varese ha vissuto gli anni migliori e vinto tutto, e più di una volta, tra cui scudetto, Coppa Italia, Coppa dei Campioni, Coppa Intercontinentale e Coppa delle Coppe. Alberto Merlati, 2.04 metri, ha invece vestito le maglie di Cantù, Gorizia, Venezia e Torino oltre a quella azzurra della nazionale.

Roberto Chiacig

Dino Meneghin, 2.05 metri di statuaria concretezza, il pivot per antonomasia quando si parla di centri italiani e della nazionale. Leggenda di Varese e Milano, con le quali ha messo insieme 12 scudetti, 6 Coppe Italia e 7 Coppe dei Campioni che ancora oggi rappresentano il record personale per un singolo giocatore. E poi, ovviamente, i grandi successi in azzurro. Come non ricordare i 2.12 metri di Luciano Vendemini, purtroppo stroncato in campo a causa di una malformazione cardiaca che aveva vestito le maglie di Cantù, Rieti e Torino.

«La maggior parte dei centri erano comunque americani anche prima - ha ricordato il vate Bianchini -. Quando ho allenato Roma, ad esempio, avevo Kim Hughes insieme a Fulvio Polesello. Tutti cercavano il lungo straniero, proprio perché la mancanza di ragazzi alti è sempre stato un problema endemico del basket italiano». Ario Costa, con i suoi 2.11 metri, ha segnato l’epopea di Pesaro con due scudetti e due Coppe Italia, ed ha rappresentato il primo centro moderno.

Denis Marconato (2.11) e Roberto Chiacig (2.10), entrambi vivaio Treviso prima di girovagare in lungo e in largo per lo stivale, sono stati gli ultimi centri con fisico e stazza, capaci di prendere posizione spalle a canestro. Contribuendo fattivamente alle ultime medaglie di prestigio dell’Italbasket. Andrea Bargnani (2.13), prima scelta assoluto del draft Nba 2006, ha rappresentato la vera rivoluzione del ruolo con le sue capacità balistiche che lo hanno portato a giocare oltre l’arco. Senza però incidere a livello di vittorie con la nazionale.

«La pallacanestro non va più di moda in Italia», questo il commento di Bogdan Tanjevic, ex coach della nazionale azzurra sulla crisi dei lunghi nel basket italiano. «Non è un caso che nella pallavolo ci sia stata un'esplosione di talenti sopra i 195 cm. Hanno sicuramente fatto qualcosa meglio di noi e soprattutto è più facile emergere». Uno sviluppo quello dei lunghi italiani che di anno in anno tarda ad arrivare, con esempi come Caruso rilegati in panchina o Totè che il ct Pozzecco non sembra vedere.

«Caruso per me ha fatto una scelta sbagliata, ma lo capisco, sicuramente Milano ha offerto delle cifre che le piccole-medie squadre non possono pareggiare. Il sistema è sbagliato, perché dovrebbe proteggere le squadre che non possono competere economicamente con le super potenze. I club sono costretti a vendere prima che effettivamente i prodotti dei vivai, o i giovani in generale, possano aver dato loro frutti. Su Totè invece, Pozzecco non ha un compito facile, ci sono passato. Difficile sfaldare un gruppo per inserire un nuovo giocatore. È più giusto forse puntare sulla continuità».

Un esempio, quello dell'Italbasket del passato che fa sì che da noi abbiano imparato Francia, Germania e Spagna, per poi addirittura superarci in tutto. Di pensiero leggermente diverso è Sandro Gamba, anche lui ex giocatore ed ex coach della nazionale azzurra, che sostiene che al problema che si presenta bisogna trovare una soluzione, e non necessariamente sulle convocazioni: «Anche quando giocavo io eravamo senza il centro super fisico di oltre due metri. Negli anni 50’, infatti, abbiamo giocato spesso pressing a tutto campo ed abbiamo alzato il ritmo sfruttando i lati positivi dei nostri fisici».

«Dipende dai tecnici, è una variabile, ogni allenatore deve fare il meglio possibile con la squadra che ha ed adattare le tattiche a seconda del roster a disposizione. Bisogna anche cambiare un po' con i giovani, magari metterli in campo e farli arrangiare, poi togliergli e spiegare l'errore». Una nazionale, dunque, che continua la disperata ricerca di un lungo che possa dare un futuro al ruolo in maglia azzurra, vista anche l'età che inizia ad avere ad esempio Nicolò Melli, fino ad ora inamovibile lungo dell’Italbasket.

 

Da Calebotta a Melli, gli anni ruggenti dell’Italia con centri veri

Nino Calebotta, 2.04, 1952 - 1968; 65 presenze e 410 punti;

Ottorino Flaborea, 1.95, 1957 - 1978; 129 presenza e 747 punti;

Alberto Merlati, 2.04, 1965 - 1975; 30 presenze e 123 punti;

Dino Meneghin, 2.04, 1965 - 1994; 271 presenze e 2947 punti;

Luciano Vendemini, 2.11, 1971 - 1977; 44 presenze e 157 punti;

Luigi Serafini, 2.10, 1971 - 1979; 112 presenze e 524 punti;

Vittorio Ferracini, 2.04, 1973 - 1982; 128 presenza e 504 punti;

Renzo Vecchiato, 2.07, 1977 - 1985; 201 presenze e 1439 punti;

Ario Costa, 2.11, 1977 - 1997; 193 presenze e 1048 punti;

Pietro Generali, 2.07, 1978 - 1983; 71 presenze e 458 punti;

Augusto Binelli, 2.15, 1984 - 1989; 95 presenze e 590 punti;

Flavio Carera, 2.06, 1985 - 1997; 129 presenze e 602 punti;

Stefano Rusconi, 2.08, 1987 - 1995; 94 presenze e 767 punti; 

Denis Marconato, 2.11, 1990 - 2006; 195 presenze e 1140 punti;

Alessandro Frosini, 2.09, 1992 - 1998; 98 presenze e 584 punti;

Roberto Chiacig, 2.10, 1994 - 2022; 188 presenze e 1475 punti;

Andrea Bargnani, 2.13, 2002 - 2017; 73 presenze e 1129 punti;

Nicolò Melli, 2.05, 2007 - presente; 124 presenze e 834 punti.



* per la rivista Basket Magazine