mercoledì 18 marzo 2020

La vita in Italia di Kobe Bryant - La leggenda è nata a Rieti

Il suo primo coach: "Passione illimitata,
è nata qui la Mamba-Mentality"

La leggenda di Kobe è nata a Rieti, dove approdò a sei anni e dove è rimasto semplicemente "il figlio di Joe"


di Giovanni Bocciero*


RIETI - Il viaggio di Kobe Bryant in Italia ha avuto inizio alle pendici del Terminillo, quando aveva soltanto sei anni. Seguendo i trasferimenti del papà Joe ha poi fatto su e giù per la nostra penisola, ma è a Rieti che è nata la leggenda del Black Mamba. Dal 1984 al 1986 ha frequentato le scuole primarie di Lisciano e il palasport di Campoloniano. Alla sua scomparsa la città ha vissuto giorni molto tristi, proprio come quando 15 anni fa vi fu la dipartita del beniamino Willie Sojourner, al quale è stato poi intitolato il palazzetto.
«È come se fosse morto uno di famiglia - ha detto il suo primo allenatore in Italia, Gioacchino Fusacchia -. Era un figlio adottivo di Rieti». La tifoseria reatina e la NPC Rieti, con la partecipazione del Comune e della Provincia di Rieti, lo hanno ricordato nella gara dello scorso 5 febbraio con una cerimonia che ha visto l’apposizione della maglia numero 24 dei Lakers al soffitto del palasport dove Kobe ha mosso i primi passi da cestista. Inoltre, sembra sia stato già avviato l’iter per l’intitolazione di una strada cittadina al figlio di Joe.
Il tributo del PalaSojourner di Rieti, dove Kobe ha vissuto i primi anni
della sua infanzia. Fusacchia: "Restava ad allenarsi per ore anche con
i più grandi e non gli si poteva dire niente: era il figlio del mitico Joe" 
Sì, perché anche se Kobe ha avuto una carriera molto più prestigiosa del papà, a Rieti rimarrà sempre il figlio di Joe. «A quell’età non si può capire se un ragazzo diventerà qualcuno - ha continuato Fusacchia -, quindi è inutile fare un certo tipo di affermazioni. Di sicuro rispetto a tanti suoi coetanei aveva una passione illimitata, che con il tempo è poi diventata la sua più grande ossessione fino a plasmare la Mamba mentality. Quando veniva in palestra faceva allenamento con il suo gruppo, e poi rimaneva anche con i gruppi giovanili più grandi. Giocava per diverse ore consecutive, senza tregua, e non gli si poteva dire nulla perché era il figlio del mitico Joe».
Quando non era impegnato a scuola o in palestra si incamminava verso il campetto degli Stimmatini dove continuava a tirare imperterrito ad un canestro. Eppure quelle strade, una volta lasciate, non l’hanno visto mai fare ritorno. Con Rieti è mancato quell’imprinting tanto che il giornalista Luigi Ricci ha messo addirittura in discussione se se la ricordasse. La città avrebbe voluto essere più partecipe nella vita del Black Mamba, tanto che sembra nel 2003 il Comune abbia tentato di conferirgli un riconoscimento andando fino a Los Angeles ma senza riuscire a combinare la cosa per i suoi molteplici impegni.
Nonostante ciò, la città può senz’altro fregiarsi del ruolo di plantageneta della leggenda Bryant, come sempre ricorda Ricci. È qui che Kobe ha iniziato a giocare a pallacanestro e ad imparare l’italiano prima di girovagare per la nostra penisola. Quell’italiano che gli apparteneva così tanto che quando ha fatto ritorno negli Stati Uniti non riusciva più a capire lo slang dei giovani afroamericani. «L’ho visto per l’ultima volta a Torino, quattro o cinque anni dopo che se ne andò - ha detto Fusacchia -, ad un torneo giovanile quando giocava a Reggio Emilia. Fu carino a venire a salutarci e fare delle foto con i suoi vecchi compagni. Purtroppo è vero che a Rieti non ha più coltivato le amicizie, ma bisogna comunque considerare che era un bambino e i suoi ricordi non erano così nitidi come altrove. Sarebbe potuto ritornare se il papà Joe fosse diventato allenatore della Sebastiani tempo fa. Ma so per certo, tramite quella che fu l’interprete della mamma Pamela qui in città e che ha continuato ad avere rapporti con la famiglia Bryant a distanza di anni - ha concluso l’allenatore -, che sarebbe voluto ritornare in ogni caso».


* per la rivista BASKET MAGAZINE

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