domenica 24 agosto 2025

Orgoglio azzurro, Ricci: «Un passo alla volta ma vogliamo una medaglia»

Una laurea in matematica, le attività solidali in Tanzania, il ruolo nel Coni, un possibile futuro politico: il capitano dell'Olimpia ci racconta il sogno azzurro

Ricci: «Un passo alla volta ma vogliamo una medaglia»

Uomo di grande personalità, ha idee chiare e tanta fiducia sugli azzurri. «Non parlo di DiVincenzo e di chi non c’è, ma a Mannion dico di tornare più affamato. I risultati delle ragazze di Capobianco e delle giovanili maschili sono di ispirazione anche per noi. Dobbiamo credere di più nei giovani italiani, permettergli di sbagliare. Con Amani Education ripago ciò che il basket mi ha dato, dopo un percorso di gavetta che rifarei tutto da capo. In Giunta Coni metterò l’atleta al centro»


di Giovanni Bocciero*

 

Lo scorso 23 luglio è iniziato il lungo percorso che porterà l’Italia a disputare l’Europeo 2025. La notizia che ha scosso i tifosi azzurri, al di là del pensiero per Achille Polonara, è l’assenza per infortunio di Donte DiVincenzo. «Nella mia esperienza ho sempre parlato di chi c'è - ha esordito Pippo Ricci -, e non di chi non c'è. Vedo la squadra che si sta allenando bene, che s'impegna e che ha fame. Stiamo facendo tutto quello che è necessario per prepararci al meglio, in attesa che arrivino Gallinari e Thompson. Sarà un percorso difficile, ma noi che siamo qui ci siamo sia con la testa che col corpo, abbiamo l'obiettivo comune di arrivare in fondo e sogniamo in grande».

Non c’è DiVincenzo, e allora come naturalizzato ecco Darius Thompson, che oltre ad aver giocato in Italia ha affrontato l’ala azzurra più volte in Eurolega. Ma cosa potrò dare alla nazionale? «Ognuno di noi deve togliere qualcosa a sé stesso per darlo alla squadra. Lo stiamo facendo, e visto che Thompson si aggregherà per la prima volta al gruppo lo aiuteremo per farlo ambientare. Correre, difendere, giocare con energia e passarci il pallone sono il nostro dna, e lui sicuramente è un giocatore di altissimo livello che può darci tanta fisicità e difesa».

Non ci sarà neppure Nico Mannion, scelta forse condivisa con lo staff tecnico italiano. Compagni di squadra all’Olimpia, Ricci spera «che sarà ancora più affamato di prima. Non entro nel merito delle scelte, però una cosa che sicuramente non deve perdere è la voglia di lavorare, di ritornare, parlando di Milano per la prossima stagione, con la voglia di vincere lo scudetto ed altri trofei. Visto che veniamo, purtroppo, da un'annata che non è andata bene».

Passato, presente e futuro, tra Milano e Italia, Peppe Poeta è quasi un comun denominatore. In particolare dopo la meravigliosa ultima stagione con Brescia che lo rivedrà tornare all’Olimpia. «Poeta è un amico stretto. Abbiamo legato molto nei due anni che è stato a Milano, e quest'anno l'ho seguito ed ho anche fatto il tifo per lui. Personalmente sono contento ritorni all’Olimpia, perché ho un rapporto particolare, è un ragazzo vero che si merita tanto. Ha dimostrato che il suo futuro è quello di fare l'allenatore. Abbiamo parlato molto, e ci siamo confrontati anche su quello che sarà l'anno che ci aspetterà».

Giampaolo Ricci alla Trentino Basket Cup, Foto Marco Brondi / Ciamillo-Castoria

Nella prima fase dell’Europeo a Limassol, l’Italia affronterò Grecia, Spagna, Bosnia, Georgia e Cipro. «Il girone è difficile, ed ogni partita sarà una guerra. Dobbiamo arrivare pronti anche per giocare più impegni in poco tempo, perché non escludo che tutte le gare possano decidersi nel finale. Noi saremo agguerriti, ma lo saranno anche gli altri, e quindi possiamo vincerle tutte così come perderle. Per questo pensiamo ad una partita alla volta - ha continuato Ricci -, un giorno per volta, consapevoli di dover preparare i match anche tatticamente. Poi sarà necessario mettere cuore e energia. Il livello è molto alto, e ne abbiamo parlato dal primo giorno del raduno, dobbiamo prepararci per essere pronti quando conterà».

S’inizia subito contro la Grecia di Giannis Antetokounmpo, partita già decisiva? «La prima partita è quella più difficile, più emotiva, in cui chiunque deve rompere il ghiaccio. Questo non esonera neppure la Grecia e Antetokounmpo, ma puntiamo molto sull'entusiasmo e per questo le amichevoli di preparazione ci serviranno da termometro sia tecnicamente che emotivamente. Non so se sarà una partita decisiva, perché tutte lo potranno essere».

Visto come è finito il campionato contro la Virtus Bologna, ci sarà una rivincita contro Shengelia e la sua Georgia? «In realtà no, perché Shengelia ha meritato di vincere lo scudetto ed il premio di Mvp, ed alla fine il campo è giudice supremo. Da capitano dell'Olimpia, questo dovrà servirci da lezione perché non siamo stati pronti quando è servito, ma in nazionale è tutto un altro discorso e non si possono fare paragoni».

Ma in generale, che Europeo si aspetta l’ala azzurra? «Ci saranno tante squadre underdog, e mi aspetto la sorpresa. Mi piacerebbe che questo ruolo spetti proprio a noi. Sono d'accordo con chi dice che questa competizione è la più equilibrata, perché ci sono 24 squadre tutte forti allo stesso livello. Al Mondiale così come all'Olimpiade è possibile prendere un'avversaria cuscinetto. Per questo è complicato ma anche bello competere contro alcuni dei giocatori più forti d'Europa e del mondo. Abbiamo ancora un po' di amaro in bocca per come è terminata nel 2022».

Non solo l’Europeo del 2022 contro la Francia, perché nelle ultime competizioni, dall’Olimpiade 2021 al Mondiale 2023, l’Italia è sempre uscita ai quarti. Uno scoglio che si vorrà superare in questa entusiasmante estate azzurra che ha già portato in dote il bronzo della nazionale femminile e l’oro dell’U20 maschile. «Le ragazze sono state di grandissima ispirazione. Non tanto per la medaglia conquistata, anche se vincere è sempre bello, ma per come hanno giocato e condiviso quel periodo vissuto insieme. Le abbiamo seguite e ci hanno dato tanta energia, e sicuramente proveremo a ripetere il loro percorso».

«Uguale il discorso per l'under 20 - ha proseguito Ricci -, perché vedere dei ragazzi con la maglietta Italia alzare un trofeo ti dà ulteriore motivazione. Non credo sia pressione, ma voglia di fare bene e sognare una medaglia. Penso che però dobbiamo restare con i piedi per terra, ai quarti prima di tutto dobbiamo arrivarci. Sono uno scoglio che da tanto tempo non riusciamo a superare, ma se restiamo concentrati qualcosa di bello può accadere».

E aggiungiamoci anche l’U18 maschile, mentre scriviamo arrivata in semifinale a distanza di nove anni dall’ultima medaglia, di cui fa parte l’espatriato talento Diego Garavaglia. «Crediamo troppo poco negli italiani, e gli diamo poca possibilità di sbagliare. Bisognerebbe cambiare questo modo di fare. Andare via, all'estero, è sicuramente una cosa coraggiosa. Penso a Garavaglia ma vale per tutti, ha deciso di firmare a Ulm e adesso dovrà riguadagnarsi tutto di nuovo. Ti rimetti in gioco, e in un modo o nell'altro sono esperienze che ti fanno crescere. Il messaggio per tutti noi dev’essere di farli giocare di più, perché i risultati ti fanno capire che giovani di livello ci sono».

Una tendenza, quella di gettare i giovani nella mischia, che forse stona tra nazionale e club. Non a caso il ct Gianmarco Pozzecco ha varato un’Italia giovanissima nell’ultima finestra Fiba di febbraio. Un percorso, per la verità, già iniziato ai tempi di Meo Sacchetti. «Sia Sacchetti che Pozzecco sono due allenatori speciali, che ti trasmettono tanto e coltivano la tua fiducia. Quando veniamo in nazionale c'è una magia che si accende, e penso che anche i giovani che esordiscono tornano nelle loro squadre più motivati. Vai oltre e superi i tuoi limiti, e vedi atleti come Sarr o Niang che continuano a migliorare. Forse loro stessi non vedono questo aspetto, ma noi dall'esterno ce ne accorgiamo».

Ricci ha fatto la cosiddetta gavetta, e «il consiglio è di lavorare duro e avere pazienza. Se vali l'occasione arriverà, bisogna sfruttarla. Sono arrivato in serie A così come in nazionale in ritardo, ma ripeterei tutto il percorso. Ho fatto le giuste tappe al momento giusto, magari se fossi arrivato più giovane a Milano o in azzurro non sarei stato pronto per affrontare le diverse situazioni. Oggi, nell'era dei social, si vuole tutto e subito, ma in realtà bisogna impegnarsi e magari sbattere più volte la testa».

Non è solo un uomo di campo, perché «nella mia vita sono stato sempre curioso, per questo ho fatto più di una cosa. Il corso di laurea l'ho iniziato perché a 18 anni non ero un promesso giocatore di Eurolega o serie A, quindi non mi bastava fare una sola cosa. Così come il progetto Amani Education in Africa, che è nato nel 2022 da un'idea dei miei genitori che sono stati per due anni medici volontari. Ho sentito una specie di chiamata, ed ho avviato questo progetto che si basa sull'educare e dare un'opportunità a ragazzini che altrimenti non ce l'avrebbero. Noi giocatori, per la nostra notorietà, possiamo lanciare un messaggio perché le persone ci ascoltano e ci seguono».

«Mi piace condividere quello che penso, e usare il basket per mandare un messaggio diverso è quello che volevo fare. In tre anni abbiamo tirato su una scuola con 97 studenti dove prima c'erano solo mattoni e sterpaglie. Ci sono più di cento persone che animano quel luogo in Tanzania, e per il nuovo anno scolastico avremo 69 nuovi iscritti. Sono stato lì un paio di settimane fa, e queste cose mi rendono vivo e mi fanno capire che sono le cose giuste da fare». Per questo suo progetto gli è stato assegnato il premio Reverberi - Oscar del basket nella categoria solidarietà. «Non mi aspettavo di vincerlo, ma significa che quello che sto facendo, che stiamo facendo con tutto il team di Amani, sta arrivando alle persone. Inutile dire che sono onorato».

Proprio perché Ricci è impegnato anche fuori dal campo, si è cimentato in una nuova stimolante avventura, venendo eletto quale rappresentante degli atleti nella Giunta Coni. «Si è trattato di una opportunità che ho colto al volo. Sono una persona curiosa, come già detto, e questa esperienza sarà per me di ascolto e apprendimento. Noi atleti dobbiamo essere al centro, e in questi quattro anni proverò a fare il mio meglio. Tante federazioni e tante regioni d'Italia fanno più fatica ad esprimersi, e per me che vengo dall'Abruzzo so che un ragazzo ha meno possibilità rispetto a chi nasce a Bologna, Milano o Roma. Per questo proverò a dare voce a chi si sente messo da parte. Vedremo se in futuro sarà fattibile una carriera politica».

Pippo Ricci e l'azzurro

Nato il 27 settembre 1991, a Chieti, Pippo Ricci veste la maglia azzurra dal 2011. Prima con l’U20, poi con la nazionale sperimentale e addirittura una veloce esperienza nel 3x3. Ha esordito con la nazionale maggiore il 29 novembre del 2018, a Brescia, nel match di qualificazione al Mondiale cinese del 2019 contro la Lituania. Da lì in poi ha collezionato 65 presenze e 434 punti realizzati. Ha partecipato all’Olimpiade di Tokyo del 2021, all’Europeo giocato a Milano e Berlino del 2022, al Mondiale in Filippine, Indonesia e Giappone del 2023, e al Preolimpico di Portorico del 2024.




sabato 9 agosto 2025

La stagione a bordo campo di Andrea Meneghin: «Meno scontata del previsto, con qualche italiano in più in evidenza»

La stagione vista a bordo campo da Andrea Meneghin: «Meno scontata del previsto, con qualche italiano in più in evidenza»

«La Virtus cresciuta nel finale, Milano scollata e confusa»

«Brescia ha rispecchiato l'ewsperienza di Poeta in campo. Trento una meravigliosa sorpresa grazie alla filosofia del club. Trapani e Trieste meravigliose guastafeste, Venezia e Tortona hanno deluso. In Italia si fatica a vedere di buon occhio proprietà straniere. In bocca al lupo a Napoli e Rizzetta, a Varese il progetto ha comunque lanciato giovani interessanti anche in ottica nazionale»


di Giovanni Bocciero*


L’epilogo del campionato di serie A è stato meno scontato del pronostico, anche se lo scudetto alla fine è rimasto sull’A1 ed ha preso la direzione di Bologna dopo tre anni dominati da Milano. Fatale, ancora una volta, la maledizione della Supercoppa, che non aiuta per niente chi inizia la stagione alzando al cielo il primo trofeo dell’anno.

«Complimenti alla Virtus per come ha affrontato i playoff, per come è cresciuta dopo la delusione dell’Eurolega - il commento di Andrea Meneghin -, in un ambiente dove pesano le sconfitte e ci si aspettano sempre grandi risultati. In un momento di forma non ottimale, Banchi ha fatto una scelta coraggiosa dando le dimissioni e capendo che non riusciva a dare più nulla alla squadra per farla esprimere al meglio. L’arrivo di Ivanovic ha riattivato il talento e la fisicità di Bologna, anche in virtù di alcune scelte di mercato, accorciando le rotazioni e prendendo un giocatore come Taylor che è risultato un innesto vincente».

«Insomma, una stagione finita nel migliore dei modi per un gruppo di campioni che ha mentalità vincente, senza dimenticare la questione Polonara che evidentemente loro sapevano già da molto prima. Un evento che può scombussolarti ma che ha fatto emergere l’eccezionale lavoro di squadra della Virtus più che il singolo individuo. Shengelia ha strameritato il premio di Mvp, ma Bologna ha stupito dal punto di vista dell’organizzazione difensiva, offensiva e di opzioni».

Milano ha invece rappresentato l’altra faccia della medaglia delle due grandi. «Sono sempre stato dell’idea che l’Olimpia si potesse concedere il lusso, tra virgolette, di poter perdere qualche partita in più. Avendo quel roster da Eurolega con potenziale, secondo i più esperti, per arrivare sino alla Final four, poneva il vantaggio del fattore campo come non una priorità - l’analisi dell’oggi commentatore tv -, poi dimostrato anche in passato. È mancata serenità, forse compattezza di squadra, al di là degli infortuni coi quali si sono dovuti fare i conti ed in particolare con quello di Nebo, sul quale si era affidato parecchio peso difensivo».

«Si è trovato un assetto di emergenza, con Leday e Mirotic che hanno fatto impazzire e messo in crisi le difese avversarie, salvo poi, come spesso succede a questo livello, venire colpiti nel punto debole di quella coppia mettendola in difficoltà. E così quel filotto di vittorie consecutive anche in campo europeo non è stato replicato nella seconda parte della stagione, mancando ancora una volta i playoff in Eurolega».

«L’Olimpia si è così potuta concentrare solo sul campionato, ma non ci è arrivata come sperava. Tanti giocatori per scelta tecnica, che bisognerebbe chiedere a Messina, non sono stati utilizzati o usati col contagocce, vedi Caruso piuttosto che Tonut, e ti hanno portato a competere con una Virtus allo stremo delle energie, con un calo di tensione, non avendo risposte da diversi giocatori, e con problemi tecnici in campo che hanno esaltato i meriti degli avversari».

Una scelta ha riguardato anche rinunciare a Melli, che poi ha vinto l’Eurolega col Fenerbahce. «Coincidenze, fatti, conseguenze, ognuno può vederli come vuole. Melli inseguiva l’Eurolega da tutta la propria carriera, e finalmente è riuscito a raggiungerla. Non so neanche quantificare la sua gioia nell’alzare quel trofeo. Per quanto riguarda Messina, non si possono negare che ha avuto delle difficoltà nel gestire alcuni giocatori e dargli fiducia. Quello che ho notato dall’esterno, è che la squadra tante volte è sembrata scollata sia in attacco che in difesa, confusa».

E proprio perché squadra e tecnico sono sembrate spesso due entità differenti, con il ritorno di Poeta si va delineando un altro futuro. «In qualunque sport di squadra c’è sempre un concorso di colpa su queste situazioni, proprio perché c’è necessità di avere unità d’intenti. Fortunatamente, chi ancora oggi lavora meglio insieme ed è focalizzato all’unisono riesce a portare a casa il risultato. Obiettivamente, non posso sapere quale fosse la situazione all’interno dello spogliatoio di Milano, ma certamente non è sembrata determinata come in altre occasioni e in altre annate. Da fuori è sembrato che non ci fosse la giusta armonia tra staff e giocatori, tant’è che nelle difficoltà si è reagito in maniera diversa rispetto alla Virtus».

Veniamo ai vinti, quella Brescia giunta sino in finale al primo anno da head coach di Poeta. «Nel loro modo di giocare si è vista tutta l’esperienza da giocatore di Poeta. Ha messo tutti nelle migliori condizioni per potersi esprimere, con gerarchie definite e tanta semplicità e passione. Seppur con un roster poco lungo, la squadra ha trovato il suo equilibrio grazie anche ad atleti che sanno giocare. Nel corso della stagione hanno lavorato bene e approfittato delle settimane senza impegni europei per recuperare gli acciacchi fisici».

«E poi si vedeva che andavano in palestra per divertirsi, e questo rende tutto più bello nonostante la fatica - la chiosa di Meneghin -. Inevitabilmente i risultati e le gioie poi arrivano. Un traguardo storico come la finale scudetto, credo possa essere paragonata alla vittoria della Coppa Italia seppur con un sapore diverso, ma con tutta l’energia e l’entusiasmo dell’ambiente. Reputo che il segreto di Poeta così come per tutto lo staff, al di là del fatto che in qualunque momento è sempre rimasto calmo, sia stato di mettere i giocatori nelle migliori condizioni possibili coprendo i difetti e amplificando ed esaltando i punti di forza».

La serie A ci ha regalato anche due matricole terribili. «Le due neopromosse Trapani e Trieste sono state delle meravigliose sorprese, perché hanno disputato un campionato spettacolare. Ai siciliani è mancata lucidità in semifinale, però ciò non toglie l’esaltante cavalcata arrivando a giocarsi il primo posto in stagione regolare, esprimendo un gioco spumeggiante, divertente, aggressivo, spettacolare, che ha esaltato diversi protagonisti ed in particolare il gran lavoro di Repesa. Molto bene anche Trieste, che però ha trovato sul proprio cammino Brescia, ed è andata avanti anche in Coppa Italia pur avendo un giocatore importante come Ross fuori per infortunio. Sono arrivati ad un passo dal giocarsi la finale facendo tremare Trento sino all’ultimo».

Ecco Trento, che ha vinto la Coppa Italia e fatto incetta di premi individuali: ben cinque. «Trento assolutamente una nota lieta grazie alla filosofia della società. Per gli investimenti fatti, il mix di gioventù e veterani, e l’idea di giocare sempre le coppe europee, ha permesso di coronare un sogno con la Coppa Italia. Vinta soffrendo, sin dal quarto con Reggio Emilia, prima del trionfo con Milano. Trento ha espresso un gioco aggressivo, bello, mai banale, esaltando l’atletismo ed i giovani, studiati con un lavoro di scouting alle spalle strepitoso».

«Senza nulla togliere alle qualità di Galbiati che ha saputo fare non bene, ma benissimo - la valutazione di Meneghin -, con il rammarico forse di aver disputato i playoff non al completo per una serie di infortuni che hanno un po’ stravolto l’identità della squadra. Adesso sotto con una nuova sfida, perché la squadra deve essere ricostruita, ed è stata affidata ad un altro grande allenatore come Cancellieri».

Non solo Eurolega, non solo Milano e Bologna. Altri club hanno disputato le coppe europee con risultati non sempre lusinghieri. E il doppio impegno alla lunga si è fatto sentire. «Per Tortona alti e bassi in campionato, e quando sembrava aver trovato la dritta via ha avuto qualche scivolone di troppo. Anche la stagione europea bene fino ad un certo punto. Annata sotto le aspettative perché ci si aspettava di più. Però siccome c’è stata tanta competizione, con Trapani e Trieste che hanno fatto le guastafeste togliendo due posizioni, hanno messo in difficoltà quelle dietro, tra cui Tortona, ma anche Venezia e Reggio Emilia».

«Gli emiliani hanno conquistato i playoff con qualche turno d’anticipo, e a tratti sono stati devastanti. Credevo potessero vincere la Coppa Italia per come hanno giocato 35’ contro Trento. Poi sono state decisive un paio di giocate di talento dei trentini. Nel finale di stagione gli acciacchi hanno compromesso anche il cammino in Bcl, ma hanno giocato un basket molto europeo con quella durezza difensiva e il tatticismo di Priftis. Venezia ha invece deluso più di tutti, nonostante i tanti infortuni che gli ha impedito di giocare spesso senza la formazione titolare. Con quel roster ci si aspettava che facesse di più. È andata vicina all’impresa con Bologna in gara 5, e conquistati i playoff di Eurocup, ma per il potenziale poteva e doveva andare più avanti e invece si è spesso persa nei dettagli».

Un’altra proprietà straniera si è appena affacciata nel nostro paese, a Napoli. Esperienze, queste, piuttosto alterne e non sempre foriere di buoni risultati. «In Italia è difficile operare per una proprietà straniera, perché siamo un po’ tutti abituati alle grandi famiglie o al mecenate di turno, imprenditori del posto e magari anche tifosi. La storia del nostro basket - ha rammentato il commentatore tv - è sempre stata segnata da squadre abbinate a illustri marchi. Per il tifoso italiano c’è sempre il timore che una proprietà estera possa non far funzionare tutto bene».

«Però vedi Trieste, dove la pallacanestro è rinata sposando perfettamente i valori della città e trovando feeling con i tifosi che è la cosa principale. Dare solidità, fare investimenti, portare giocatori con nome ma efficienti in campo è essenziale. Da contraltare a Pistoia si è visto un anno disastroso, dove la proprietà ha lasciato cuori infranti. Le altre hanno sempre fatto il massimo, come Scola a Varese ad esempio. Ma si tratta di una piazza non semplice. Sbagliando s’impara e, pur facendo tutto in buona fede è importante crescere, capire e non ripetere gli stessi errori».

«Però la stessa Varese sta investendo molto sui giovani, vedi Librizzi o Assui, che giocano e permettono anche di creare identità e attaccamento. E questo senza un budget di prim’ordine. La società è presente e cerca di fare il meglio possibile, ottenendo il massimo risultato ottimizzando i costi. La passione e il pubblico arrivano dai risultati, e Napoli non può trascendere da questo. Adesso bisogna vedere l’operato della nuova proprietà con Rizzetta in testa, ma già la firma di Magro come allenatore mi sembra un ottimo inizio».

Cosa ha lasciato questo campionato in ottica nazionale? «Le risposte degli italiani ci sono state, ed anche parecchie. Per il discorso nazionale però, a volte non bastano i grandi numeri, perché bisogna che ci si sposi con l’idea di gioco dell’allenatore, e con l’identità e la struttura del gruppo. Gli italiani hanno dimostrato di essere pronti in caso di chiamata, ma sono tante piccole cose, soprattutto caratteriali, che comportano una convocazione».

«Logico che più profili abbiamo meglio è per il bene della nazionale». E allora Della Valle? «La meriterebbe, e so che culla così tanto il sogno dell’Olimpiade che si è reso disponibile per il 3x3 per rappresentare l’Italia. Se Pozzecco dovesse chiamarlo - ha concluso l’ex medaglia d’oro europea a Parigi 1999 -, immagino che lui correrebbe di corsa senza creare problemi. Ma è il coach e lo staff a decidere».


* per la rivista Basket Magazine



L'impresa dell'Italia di bronzo

Eurobasket Women di Atene: trent'anni dopo il nostro basket femminile torna tra le tre migliori squadre del continente

Ragazze da sogno, l'Italia che vogliamo

Le azzurre si mettono la medaglia di bronzo al collo vincendo meritatamente il girone di Bologna, facendo tremare il Belgio campione d'Europa e surclassando la Francia vicecampione olimpica. Zandalasini e Cubaj le migliori di un gruppo fantastico, squadra vera dentro e fuori del campo, col ct Capobianco che ha disegnato un autentico capolavoro facendo innamorare tutto il paese. Ottimi gli ascolti sulla Rai

di Giovanni Bocciero*


È un’Italia che ci ha fatto emozionare, quella femminile, capace di tornare sul podio dell’Eurobasket a distanza di trent’anni dalla medaglia d’argento conquistata dalla nazionale di Riccardo Sales e delle varie Catarina Pollini, Novella Schiesaro, Viviana Ballabio, tante delle quali hanno rappresentato la delegazione di azzurre presenti proprio a Bologna per assistere alla partita contro la Lituania. Sarà stato un incontro benaugurante visto come è terminato questo Campionato europeo.

Di sicuro, lo aveva detto il ct Andrea Capobianco alla vigilia della manifestazione continentale, che le sue ragazze ci avrebbero «fatto innamorare». Ed effettivamente, le azzurre sono state capaci di ipnotizzare un paese intero pur non dando calci al pallone e neppure saltando a rete. Con determinazione si sono prese la medaglia, lottando e mettendoci tutto l'impegno possibile, dimostrandosi squadra vera dentro e fuori dal campo. Capace anche di superare le difficoltà, come l’infortunio di Matilde Villa.

La grande assente è stata proprio la play, che purtroppo ha subìto la rottura del legamento crociato anteriore del ginocchio destro nell’amichevole di avvicinamento col Belgio. Un’assenza che, forse, ha fatto mancare quell’ideale passaggio di consegne tra lei e Cecilia Zandalasini quale nuovo talento e faro azzurro. O forse no, visto che la nativa di Broni ha disputato un Europeo da campionessa pura. Ha fatto registrare 16.8 punti, 6 rimbalzi e 3 assist di media nelle sei gare disputate, per un 19.2 di valutazione, aggiungendo alla medaglia di bronzo anche la nomina nel miglior quintetto della manifestazione.

L’Italia ha iniziato a vincere e convincere sin dal girone di qualificazione andato in scena al PalaDozza di Bologna, battendo in serie una Serbia alle prese con un ricambio generazionale, una Slovenia apparsa troppo risicata nelle rotazioni, e una Lituania autentica sorpresa ma comunque dal potenziale ancora da definire. Eppure, con il primo posto e un quarto di finale raggiunto addirittura con un turno d’anticipo, un appunto sul pubblico va fatto. Nonostante ci si trovasse a Bologna, la ‘basket city’ per eccellenza del nostro paese, il palasport non è stato riempito neppure nella terza e decisiva gara giocata di sabato sera contro le lituane.

Bologna non sarà tra le principali piazze della pallacanestro in rosa, anche se sino a due anni fa ha avuto la Virtus che ha disputato due finali scudetto e vinto una Supercoppa proprio con la Zandalasini tra le principali protagoniste, ma qualcosa in più ce lo si aspettava. Le azzurre, comunque, al di là del seguito sulle tribune, che sembra essersi attestato sulle 4mila presenze di media, si sono conquistate l’attenzione nazionale con le loro prestazioni. E pur partendo in sordina e forse con non poco scetticismo, sono arrivate a guadagnarsi le dirette sulla Rai per la seconda fase dell’Eurobasket, disputata ad Atene.

Forse il segreto di questa Italia è stato non fare voli pindarici, pensare ad una partita alla volta, ad un avversario alla volta. Prima c’è stato da affrontare il battesimo di fuoco con la Serbia, migliore squadra del ranking mondiale del girone bolognese al numero 8 - mentre l’Italia è al sedicesimo posto -. Ma come detto, le serbe sono alle prese con un ricambio e sono apparse ancora acerbi a questo livello. Non a caso, hanno terminato il raggruppamento addirittura in fondo alla classifica.

Diverso il match con la Slovenia, numero 22 del ranking, nel quale la lunga naturalizzata Jessica Shepard è stata soltanto la prima di una serie di avversarie più grosse e fisiche che le azzurre sono state capaci di tenere a bada con una difesa di gran livello. Proprio la determinazione nella propria metà campo ha rappresentato il marchio di fabbrica di questa nazionale che ha saputo soffrire, aiutarsi, sporcare le linee di passaggio, spizzare palloni in area e gettarsi sulle palle vaganti che spesso e volentieri fanno la differenza tra la vittoria e la sconfitta.

Non a caso nella terza e decisiva gara per chiudere al primo posto il girone, contro la Lituania che si presentava con più centimetri e chili in tutti i ruoli, l’Italia l’ha tenuta a soli 51 punti realizzati. Il vecchio adagio recita che l’appetito vien mangiando, e allora sul volo per Atene le azzurre avranno di sicuro pensato che bisognava andare oltre i complimenti. Alla fin fine è il risultato che conquisti che nessuno mai ti potrà togliere. Superare lo scoglio dei quarti di finale era il primo passo da compiere, perché aveva un duplice prezioso obiettivo. Significava finire tra le prime quattro e dunque aumentare le probabilità di andare a medaglia; e conquistare un posto per il torneo di prequalificazione al Mondiale 2026.

Ricordiamo la scelta della federazione, in piena sintonia con lo staff tecnico della nazionale femminile, di non prendere parte al torneo di prequalificazione della scorsa estate, con la finalità di preservare l’integrità fisica delle atlete e per garantirgli una post season di riposo, alla vigilia di una stagione agonistica che si sarebbe chiusa, di fatto, con l’attesissimo appuntamento dell’Eurobasket. Una scelta dal sapore pokeristico dell’all in, che ha però portato i suoi frutti.

E allora sotto la Turchia, che nel ranking della Fiba appena una posizione sotto l’Italia, alla numero 17. Turche che hanno avuto il merito di vincere nel girone di qualificazione la gara da dentro o fuori con le padrone di casa della Grecia. Con la Turchia le azzurre hanno fatto un’altra partita di grande spessore, ma hanno anche rivisto i fantasmi del 2017. In quella edizione del Campionato europeo, Capobianco sedeva in panchina e Zandalasini era l’enfant prodige al suo esordio assoluto in una competizione senior. L’Italia affrontava la Lettonia per lo spareggio che assegnava un posto Mondiale, e nel finale punto a punto, urla ancora vendetta l’antisportivo ravvisato all’attuale stella italiana e della Wnba.

Contro la Turchia la sfortunata protagonista è stata Jasmine Keys, che si è vista annullare un canestro buono quando mancavano ancora 0.2 secondi sul cronometro. E ancora peggio, è il fatto che la terna arbitrale non abbia potuta controllare e ravvedersi all’instant replay, perché questo al momento non funzionava. In una manifestazione del livello di un Europeo, certi intoppi è inammissibile che accadano. Quei due punti potevano costare caro, dato che allo scadere le avversarie hanno mandato la partita al supplementare. La volontà di vincere è stata comunque più forte, e alla fine la Turchia è stata battuta.

Non si finisce mai di sognare, però. Raggiunta la semifinale a questo punto andava conquistata anche una medaglia. Di qualsiasi colore, purché si appendesse qualcosa al collo. È il Belgio l’avversaria in semifinale, e le azzurre non si sono date per vinte. Nella ripresa grazie ad un parziale di 17-0 hanno rimesso il naso avanti, e solo nel finale tirato a festeggiare sono state le avversarie, che hanno mostrato il giusto riconoscimento con la Julie Vanloo che ha confortato una ad una le ragazze.

Per la medaglia di bronzo bisognava battere le francesi, vicecampionesse olimpiche, alle quali mancavano un paio di giocatrici ma restavano comunque forti. Si è anche discusso della mancanza di esperienza delle azzurre, nel giocare su palcoscenici del genere. Evidentemente, da Zandalasini a Costanza Verona, da Lorela Cubaj a Sara Madera, passando per Martina Fassina preziosissima contro Belgio e Francia, hanno fatto tesoro delle loro avventure giovanili. Dal 2015 al 2019, infatti, il palmares generale parta di quattro bronzi, cinque argenti e tre ori a livello sia europeo che mondiale.

L’Italia è scesa in campo con la determinazione giusta, il migliore approccio possibile e sin dall’inizio si è messa a condurre nel punteggio fino a dominare pian piano la partita, nonostante qualche momento di defaillance. Le francesi sono state tenute a 54 punti nonostante il miglior attacco dell’Europeo sin lì con una media di 84.2. Alla vigilia della finale per il 3° e 4° posto, Zandalasini aveva parlato delle differenze che si avvertono nel nostro paese tra lo sport femminile e quello maschile, rivendicando l’agonismo e il ‘bello’ del basket femminile. C’è da dire che le ragazze sono riuscite in quello che da anni non riesce ai ragazzi, che ad Europei e Mondiali non superano l’ostacolo dei quarti.

Nell’immediato post gara, con la medaglia al collo, Capobianco ha invece sottolineato di come oltre per il cuore, questo traguardo è arrivato anche tatticamente. Perché l’Italia è stata capace di adattarsi e cambiare rispetto all’avversario di turno, rivendicando un successo non solo emotivo ma anche tecnico. E proprio Capobianco è stato nominato anche miglior allenatore dell’Europeo. Un premio più che meritato per come è riuscito a far giocare questa squadra. Sempre sfrontata, mai doma, dura a morire in qualsiasi situazione. Arcigna e aggressiva, attenta e concentrata.

Share da record sulla Rai: il 5,56% contro la Francia

Queste azzurre hanno fatto innamorare l’intera nazione. Parlano i dati della Rai, con ascolti ottimi. Con la Turchia seguito di 389mila spettatori di media, saliti nel supplementare a 571mila con uno share del 3.4%. Col Belgio il primo tempo su Rai Due ha avuto 290mila spettatori (2.39%), mentre il secondo tempo su Rai Tre ne ha avuti 545mila (3.75%), per una media di 418mila utenti collegati. Con la Francia, invece, 443mila spettatori medi (4,99%), con uno share salito al 5,56% nel secondo tempo (491mila utenti collegati).


* per la rivista Basket Magazine

martedì 3 giugno 2025

El Diablo, sulla cresta dell'onda del mare: l'intervista a cuore aperto

Intervista a cuore aperto con uno dei giocatori più emblematici della pallacanestro italiana, in cui ha lasciato una traccia indelebile

El Diablo, sulla cresta dell'onda del mare 

«Ho chiuso col basket. Dopo Brescia non mi ha chiamato più nessuno». Ma la pubblicazione della sua autobiografia ha permesso ad Enzo Esposito di ritornare solo per un po' in quel mondo che ha frequentato per oltre trent’anni, prima da giocatore e poi da allenatore. Non gli piace vivere nel passato, per questo si è lasciato alle spalle tutto ed è volato a Gran Canaria, dove, viaggiando in caravan, insegue le onde e si prende cura di sé stesso.

 

di Giovanni Bocciero*

 

Ha fatto impazzire di gioia le tifoserie delle squadre per cui ha giocato, ma allo stesso tempo si è attirato la malevolenza di quelle avversarie proprio per il suo modo di giocare verace e sanguigno. In un modo o in un altro, Enzo Esposito ha di sicuro infiammato i parquet di tutta Italia. Ed è raccontato per intero nella sua autobiografia “El Diablo, vita e miracoli dell’ultimo poeta del basket italiano”, libro pubblicato dall’associazione di tifosi Il Fortitudino.

«A me non piace ricordare le cose del passato - esordisce esplicito, come nel suo carattere, Esposito -. Certo, fa piacere che siano successe, ma per come la vedo io nel guardare troppo indietro si fa poi fatica ad andare avanti. È normale che fare comunque un tuffo nel passato fa riemergere tanti episodi legati a successi, delusioni, eventi particolari che fanno piacere. Tutto ciò è servito per scrivere questo libro che è stato fatto davvero molto bene, con tante foto e diversi ritagli di articoli di giornale che ne hanno fatto un volume veramente completo. E poi ha uno scopo benefico, e fa ancora più piacere quando c’è un fine più grande».

È papà Biagio che conserva gelosamente qualsiasi cosa riguardi lo scugnizzo casertano. Nella loro casa di Caserta ha una stanza completamente piena di memorabilia oltre che di foto. Tante delle quali sono servite, appunto, per rendere ancora più di valore il libro. Come quella dell’esordio in serie A ad appena quindici anni, gettato nella mischia da Bogdan Tanjevic in una sfida a Livorno. Volume impreziosito dalle tante testimonianze, dagli aneddoti e dai racconti. Il più emblematico, forse, quello dei quindici tifosi fortitudini partiti da Bologna per andarlo a vedere giocare, o forse sarebbe meglio dire per andarlo a trovare, visto il legame, a Toronto.

L’ULTIMA VOLTA CHE ABBIAMO VISTO Esposito su di un campo, però, era sul finire del 2020, allenatore di Brescia prima che arrivasse la rescissione. «Il mio post Covid è stato abbastanza traumatico - ha dichiarato con un po' di magone -. Prima c’era stata la comunque buona stagione di Caserta nonostante la retrocessione, poi i successi di Pistoia e la prima ottima annata a Brescia. Con la pandemia è stata una lotteria un po’ per tutti, e purtroppo per me le cose sono diventate negative. Si sono verificati così tanti episodi che mi hanno lasciato il segno, anche extra cestistici, che mi hanno fatto allontanare effettivamente dal basket».

Riposte nel cassetto casacche, pantaloncini e scarpette, abituato ad utilizzare anche quando allenava, ha ripercorso la sua carriera a ritroso. E questa l’ha portato in un luogo dove ha giocato per pochi mesi dal gennaio del 2002. «Mi sono trasferito a Gran Canaria, dove ho tante amicizie, ed ho iniziato una vita completamente diversa. I primi anni ho pure collaborato con una accademia che reclutava ragazzi a livello internazionale per poi facilitare il loro trasferimento negli Stati Uniti, ma adesso sono due anni che mi dedico solo a me stesso. Mi piace fare bodyboard, che è una versione differente del surf, e mi godo la vita».

Anche se «la pallacanestro è un capitolo chiuso», come ripete più volte, ogni tanto torna ad allacciarsi quelle scarpette perché «capita che per qualche amico che ha i figli che giocano, faccia degli allenamenti privati per dargli un’occhiata e qualche consiglio. Però per quanto riguarda il basket inteso come giocatori e club, non ne ho più idea perché non lo seguo da almeno tre anni. Ormai viaggio in caravan e sono sempre in giro alla ricerca del posto migliore dove trovare le onde. Vivo in un mondo a parte ed ho staccato completamente col basket».

Enzo Esposito a Caserta (Foto Filauro)

SONO DI DOMINIO PUBBLICO le parole dell’ex general manager di Caserta, Marco Atripaldi, rimasto sbalordito dalla quantità di conoscenze che aveva Esposito negli States. Durante un viaggio dei due nell’estate del 2014, per andare a vedere le partite della Summer League di Las Vegas e monitorare qualche giocatore da portare all’ombra della Reggia, chiunque conosceva El Diablo. E proprio per questi suoi molti contatti, oltre all’esperienza da giocatore in Nba, covava il desiderio un giorno di allenare al college.

«Continuo a collaborare con una società in Italia, la Hoopers Bridge, che si occupa principalmente di reclutamento di ragazzi che vogliono provare a fare un’esperienza negli Stati Uniti. Do una mano, ma ho abbandonato anche l’idea di poter allenare al college in America. Ricominciare ogni volta da zero, per dimostrare cosa puoi fare o cosa sai fare non è semplice. Si arriva ad una età, come la mia, in cui non puoi più fare un passo avanti ed uno indietro. Ormai sono per guardare solo in avanti, sempre, altrimenti per usare una metafora legata all’acqua, le onde ti travolgono e rischi che ti fai male».

Per dare l’idea di cosa significa davvero aver chiuso con il basket, Esposito non legge neppure i giornali spagnoli, e della vicenda dell’azzurrino Dame Sarr sa poco o nulla. «So che ha lasciato il Barcellona e che andrà negli Stati Uniti, magari in Nba (ma non compare nella lista dei 106 atleti iscritti per il draft di questa estate perché non si è dichiarato, ndr). Credo comunque che in Ncaa sia un tipo di giocatore che possa davvero fare sfracelli. Ma mi limito a dire questo perché davvero non seguo più la pallacanestro giocata, neppure per quel che concerne il campionato spagnolo. In tre anni sono andato a vedere soltanto due volte le partite del Gran Canaria. Una volta mi hanno invitato a vedere il derby; e un’altra volta perché giocava contro Trento, e l’assistente allenatore Fabio Bongi è un mio amico perché abbiamo lavorato insieme a Pistoia. Per questo sono passato a salutarlo».

TRENTO È UNA CITTÀ CHE RICORRE spesso nella sua vita. Difatti, la sua carriera da allenatore è iniziata proprio nella valle del fiume Adige: stagione 2009/10. «Quello fu il mio primo anno in assoluto da coach, con Trento che era stata ripescata dopo la retrocessione per fare di nuovo la serie A Dilettanti. C’era la nuova società, che iniziò il suo cammino con Salvatore Trainotti in qualità di dirigente, e sfiorammo i playoff. Non lo sapevo ma mi fa piacere che abbia vinto la Coppa Italia perché è una piazza dove sono stato bene e trattato ancor meglio. Proprio quest’anno, in occasione dell’unica partita che sono andato a vedere, ho conosciuto coach Paolo Galbiati. Siamo stati avversari, e sono rimasto felice di averlo potuto conoscere perché tutto l’ambiente è composto da persone serie che lavorano molto bene».

Casertano di nascita, bolognese d’adozione, l’Italia per El Diablo è ormai solo una tappa fugace. «Manco da Caserta da un anno, ed ovviamente non mi sono interessato ai risultati della squadra. Le uniche volte che mi capita di passare in città sono per festività particolari, come ad esempio il compleanno di mia madre. Ma ormai ci vado una o due volte l’anno. E l’ultima volta non sono rimasto per neppure 48 ore prima di ritornare a Gran Canaria. Neanche gli amici più stretti mi informano sulla Juvecaserta, perché sanno che ormai sono fuori dal giro. Quando mi sono incontrato con loro abbiamo parlato di tutto, tranne che di pallacanestro».

«A Bologna, invece, sono stato tre giorni per la presentazione del libro, era appena arrivato Attilio Caja come allenatore». E proprio quel fortuito caso ha fatto sì che gli telefonasse Rick D’Alatri dall’America per chiedergli se fosse vero che andava ad allenare la Fortitudo. «Ma quando mai. Non so più nulla perché ho chiuso col basket. Al momento sto solo pensando a me stesso e a come organizzarmi nel miglior modo possibile per vivere sull’isola, dove ho una vita meravigliosa, per essere pronto ad ogni evenienza. Ma nulla a che vedere con la pallacanestro. Ripeto, faccio surf, skateboard, palestra, ma di sport di squadra non ne ho più idea. Non ne ho proprio il desiderio, anche perché dall’Italia non ho più sentito nessuno».

LE PAROLE DEL PRIMO GIOCATORE italiano ad aver segnato punti in Nba vengono avvolte anche da amarezza e dispiacere, perché «dai procuratori ai coach, non ho più ricevuto una telefonata. È una cosa abbastanza triste, non per me ma per far capire come funziona questo mondo. Fin quando ero nel giro sentivo quasi settimanalmente gli agenti e i colleghi allenatori, ma dopo un anno che avevo staccato sono spariti tutti. Quando pensi a queste cose, capisci che non ne vale neppure più la pena, perché dopo aver passato trent’anni sui campi ci si riduce a non ricevere neanche più un messaggio d’auguri».

Il soprannome El Diablo glielo hanno appiccicato proprio alla Fortitudo, dopo una partita giocata ‘a metà’ in quel di Pistoia. Altra città a lui cara. Nel primo tempo gioca male, non segna neppure un punto e allora Sergio Scariolo lo fa sedere in panchina. Ne nasce uno scontro, fumantino come è, e nel secondo tempo riversa tutta la rabbia accumulata in campo: segna 29 punti. È un’iradiddio, o meglio dire un diavolo. Tiratore sì, ma amava anche fare a brandelli le difese con le sue azioni spesso e volentieri immaginifiche. Ancora oggi non ci si capacita di certe sue giocate.

IL SUO RAPPORTO CON GLI ALLENATORI non è sempre stato dei migliori, proprio per il suo temperamento. Eppure addirittura Ettore Messina, suo ct in occasione degli Europei del 1995, ha raccontato nel libro di aver imparato tanto da Esposito. E lui ha fatto tesoro degli insegnamenti dei tanti grandi tecnici che ha avuto quando è passato dall’altra parte della barricata. «Quando cambi ruolo è importante mettere da parte quello che è stato quando eri giocatore, ed è fondamentale mettersi a disposizione della squadra. Il carattere fumantino, magari, ti permette di gestire con maggiore personalità le situazioni, dall’arbitro al giornalista, dal dirigente al tifoso».

Forse, pensare che sarebbe diventato a sua volta un coach era una cosa inimmaginabile. Ma da allenatore, El Diablo, ha cercato di portare la sua idea di pallacanestro. Molto diversa dall’abuso del tiro da tre che è in voga adesso. «Il gioco è cambiato. Ma questo già quindici anni fa, con i primi lunghi che hanno iniziato a stazionare in maniera fissa sul perimetro. A me assolutamente non piace tutto questo tiro da tre, e quando allenavo mi davo l’obiettivo di costruire squadre sempre equilibrate».

«Pensa ai giocatori che ho avuto, Nathan Boothe, Alex Kirk, Jack Cooley, Dejan Ivanov, ho sempre cercato di prendere un lungo che potesse anche creare il gioco interno. Per me nella pallacanestro va utilizzato tutto il campo, invece oggi si gioca solo in contropiede e col tiro da tre. Il basket va in questa direzione, e bisogna dunque adeguarsi. Ma il problema è che i ragazzini non lavorano più sui fondamentali ma solo sull’atletica e il tiro. Questo va a vantaggio dello spettacolo, ma quando ciò non avviene si assistono a partite dall’indubbia bellezza».

Esposito ha rappresentato il ponte tra l’Italia e gli Stati Uniti. Ne ha conosciuto le abitudini, il modo di pensare e come lavorano. Per questo, chi meglio di lui può dare un giudizio sulla nascente lega della Nba Europe. «Gli americani sono i numeri uno per il business. C’è poco da dire. Non so di cosa si tratti nello specifico questa nuova lega, ma ci vedo tanto di business. Loro non fanno niente per niente, quindi oltre alla pallacanestro c’è una grossa fetta percentuale che riguarda il merchandising ed il reclutamento».

«È la direzione globale che sta prendendo il mondo. A me personalmente non piace, e non la considero una cosa vantaggiosa ed interessante per la pallacanestro europea. La potrei quasi definire come una G League fatta oltreoceano, con franchigie che saranno loro affiliate. E questo permetterà di abbattere le barriere e spianare molto più facilmente la strada per i giovani - ha concluso Enzo Esposito - che saranno attratti ad andare a giocare negli Stati Uniti».

Esposito da giocatore in Nba (foto Google)

Esposito è stato il primo colpo dell’era Seragnoli

L’associazione Il Fortitudino ha iniziato da alcuni anni ad intraprendere una sua linea editoriale con la pubblicazione di libri che raccontano giocatori passati per la Effe. Si è iniziato con Gary Schull e Charles Jordan, per arrivare a Enzo Esposito e a “El Diablo, vita e miracoli dell’ultimo poeta del basket italiano”. Già c’è stata una prima donazione col ricavato del volume al partner storico del gruppo di tifosi dell’Aquila, ovvero il Willy The King Group, associazione che si occupa della promozione della cultura dell’inclusione dei soggetti diversamente abili. Il libro ha avuto due ristampe, ed ha raggiunto già le 700 copie vendute in tutta Italia, dalla Sicilia al Friuli. Per chi lo volesse acquistare e farselo spedire può scrivere a info@ilfortitudino.it.

Dopo la presentazione a Bologna, è prevista un’altra serata promozionale a Caserta, e forse una ad Imola. Tutto dipende dalla disponibilità di Esposito. «Nonostante sia rimasto solo due anni alla Fortitudo, senza vincere nulla - ha detto Gabriele Pozzi, curatore del volume -, gode di un affetto anche maggiore di tanti altri campioni. Nel giorno del firmacopie c’era una fila immensa al PalaDozza. È stato il primo grande acquisto dell’era Seragnoli, in una squadra che giocava un basket strepitoso che seppur con una penalizzazione arrivò ai playoff qualificandosi per la Coppa Korac. Quando la tifoseria ricorda quei due anni che ha giocato per la Effe, sorride per la gioia».


* per la rivista Basket Magazine

venerdì 25 aprile 2025

Nazionale in sofferenza: alla ricerca del centro perduto

 

Da vent'anni, e dal tramonto degli ultimi grandi pivot di ruolo, l'Italia è a digiuno di medaglie: solo con un punto di riferimento importante sotto canestro la nazionale è riuscita a conquistare i risultati migliori

Alla ricerca del centro perduto

Nino Calebotta il primo gigante della nostra pallacanestro, Dino Meneghin la leggenda, la coppia Marconato e Chiacig gli ultimi esemplari. Servono coraggio e creatività per non soffrire la mancanza di lunghi


di Giovanni Bocciero e Matteo Cappelli*


 

“Cerco centro di gravità permanente”, cantava il maestro Franco Battiato. Il centro, o pivot, termine un po’ desueto oramai, per lunghi tratti della storia della pallacanestro ha inciso e deciso il gioco. Anche per quel che riguarda la nazionale italiana, che ha centrato i risultati più importanti potendo schierare un lungo di alto livello. Da Dino Meneghin perno dell’Italbasket prima medaglia d’argento alle Olimpiadi di Mosca 1980 e poi d’oro agli Europei del 1983, alla coppia Denis Marconato e Roberto Chiacig fondamentali per la medaglia più preziosa agli Europei del 1999 e poi per quella d’argento alle Olimpiadi di Atene 2004.

Certo, oggi il gioco è evoluto, si è trasformato, e magari le competenze dei centri sono da dividersi con il resto della squadra. Basti pensare ai rimbalzi, un fondamentale che prima magari era prerogativa dei giocatori lunghi, mentre adesso è spesso una questione di squadra. Già soltanto pensare al grande abuso del tiro da tre - sul quale abbiamo fatto un’inchiesta proprio nel numero precedente di BM -, produce un numero elevato di rimbalzi lunghi che sono fuori portata dei centri e sui quali devono avventarsi gli esterni. Ma proviamo ad andare alle origini del ruolo, e a capirne l’importanza nel contesto odierno, soffermandoci ovviamente in ottica azzurra.

Valerio Bianchini, tre scudetti ed una Coppa Italia con Cantù, Roma, Pesaro e Fortitudo Bologna, oltre a quattro trofei internazionali, è stato ct dell’Italia per il biennio 1985-1987. Diamo la definizione di centro?

«Nell’immaginario, il centro è un uomo grande e grosso, rimbalzista e stoppatore. Nel vecchio stile del basket era molto importante, oggi è però sparito come ruolo. Era prezioso perché il gioco si basava molto sull’asse composto dal play e dal pivot, ed entrambi erano dei creatori pur con competenze e posizioni differenti. Un lungo, infatti, giocando sotto e spalle a canestro spesso facilitava il gioco dietro la difesa, suggerendo ad esempio i tagli. Un elemento che ha portato alla sua estinzione come ruolo è stato il pick and roll. Questo porta il centro a dover salire ben oltre la linea dei tre punti per poi tagliare forte sfruttando il mismatch oppure per prendere il rimbalzo».

«Tutto ciò, in maniera epidemica - ha sottolineato il vate -, ha strappato il centro dall’occupare la posizione in post basso. Non lavorando più su questo fondamentale aspetto del gioco, quando un lungo riceve palla in quella posizione non ha la tecnica per usare i perni ma cerca un ingresso in area di forza. Ed è diventata una grande perdita per la qualità del gioco. Mettiamoci poi la psicosi del tiro da tre, ormai utilizzatissimo anche dai centri, che per caratteristiche anche morfologiche vi si addice di più rispetto al dover battagliare sotto canestro».

Denis Marconato con Dino Meneghin

Quando nella pallacanestro si parla della mancanza di centri, spesso si indica la pallavolo come colpevole di rubarci i ragazzi più alti. È verità?

«La pallavolo ha una maggiore presenza nelle scuole, e così vengono segnalati i ragazzi che hanno più qualità fisiche adatte alla disciplina. Nella pallacanestro il reclutamento avviene attraverso il minibasket, un movimento meritorio che è basato però sul pagamento delle quote da parte delle famiglie, e che quindi diventa una limitazione spaventosa. Il basket non mette in campo nessuna azione di penetrazione nelle scuole. E va anche detto che alzare una rete e giocare a pallavolo è più semplice, senza possibilità di contatti e conseguenti infortuni».

«Potrebbe essere un cavallo di Troia per l’intero movimento il basket 3v3 – ha osservato lo storico coach -, perché spesso i ragazzi si autoregolano senza avere necessità dei professori. La maggior parte dei quali non sa neppure da dove iniziare con la pallacanestro perché si tratta di un gioco complesso. C’è bisogno del controllo del corpo, di quello della palla e in generale del gioco collettivo, per nulla naturale rispetto al calcio o al volley. Mettere un canestro in un angolo della palestra, o nel campetto all’aperto potrebbe essere la soluzione per far nascere la passione da coltivare e far sviluppare successivamente in un club».

Però qualche giocatore c’è. Ad esempio, Caruso è stato medaglia d’argento al Mondiale Under 17 in Egitto nel 2017, mentre Totè è stato nominato Mvp del Fiba European Under 18 in occasione dell’Europeo 2015. Eppure, da giovani promesse né l’uno né l’altro sono riusciti a trovare spazio o ad esplodere definitivamente?

«Il sistema professionistico non è fatto per sviluppare il talento dei giovani. È fatto per utilizzare al massimo le possibilità che ha un giocatore di trovare spazio in squadra. In Italia succede che un club come Milano o Bologna prenda i migliori giovani per occupare i posti da giocatori formati senza però farli giocare. Questo è un male endemico anche in A2, dove gli allenatori sono sempre più precari e marginali, ma anche timorosi per cui non lanciano più i giovani».

«Tutto questo è anche causa del fatto che al termine del percorso giovanile - ha analizzato il tecnico due volte campione d’Europa con Cantù e Roma -, i ragazzi anche promettenti vengono gettati nel calderone dei campionati dilettantistici, che in realtà sono semiprofessionistici ma vengono così mascherati. S’interrompe la loro maturazione, proprio perché non c'è un campionato deputato. Ci vorrebbe una visione, ma al momento il mondo del basket non ce l’ha».

Ma c’è bisogno del centro per vincere, anche e soprattutto in ottica nazionale, visto che i migliori risultati azzurri sono arrivati con giocatori come Meneghin, Marconato e Chiacig in squadra?

«Per quanto riguarda la nazionale, c’è da dire che oltre ad una mancanza fisica, e quindi in assenza di giocatori di stazza, i pivot non hanno neppure la tecnica, cosa sempre più rara. Però non ci si può arrendere a questa mancanza, perché si può giocare anche con dei giocatori non altissimi, quasi esterni, che sanno creare spazio per le penetrazioni ed essere pericolosi al tiro. Con l’evoluzione del gioco ci possono essere alternative al pivot puro, ma bisogna avere le capacità per permettere alla squadra di giocare in maniera differente rispetto alla pallacanestro tradizionale».

«Un sistema da poter adottare è quello di affrontare gli avversari con più movimento, sia della palla che senza, sfruttando questi lunghi più dinamici in modo da creare spazi per le penetrazioni degli esterni. Ma non è facile - ha osservato Bianchini - perché la nazionale ha sempre poco tempo per sviluppare un gioco collettivo. E purtroppo ritengo che ancora per molti anni non avremo un pivot decente, per cui lo cercheremo in America. Ammesso che venga a giocare per noi».

Nino Calebotta è stato il primo gigante della pallacanestro azzurra. Alto 2.04 metri, di origini balcaniche ma cresciuto a Milano, è a Bologna sponda Virtus che si è fatto apprezzare per le sue qualità negli anni 50’ e 60’ partecipando anche alle Olimpiadi di Roma. È poi seguito Ottorino Flaborea, pivot bonsai di 1.97 metri, che con Varese ha vissuto gli anni migliori e vinto tutto, e più di una volta, tra cui scudetto, Coppa Italia, Coppa dei Campioni, Coppa Intercontinentale e Coppa delle Coppe. Alberto Merlati, 2.04 metri, ha invece vestito le maglie di Cantù, Gorizia, Venezia e Torino oltre a quella azzurra della nazionale.

Roberto Chiacig

Dino Meneghin, 2.05 metri di statuaria concretezza, il pivot per antonomasia quando si parla di centri italiani e della nazionale. Leggenda di Varese e Milano, con le quali ha messo insieme 12 scudetti, 6 Coppe Italia e 7 Coppe dei Campioni che ancora oggi rappresentano il record personale per un singolo giocatore. E poi, ovviamente, i grandi successi in azzurro. Come non ricordare i 2.12 metri di Luciano Vendemini, purtroppo stroncato in campo a causa di una malformazione cardiaca che aveva vestito le maglie di Cantù, Rieti e Torino.

«La maggior parte dei centri erano comunque americani anche prima - ha ricordato il vate Bianchini -. Quando ho allenato Roma, ad esempio, avevo Kim Hughes insieme a Fulvio Polesello. Tutti cercavano il lungo straniero, proprio perché la mancanza di ragazzi alti è sempre stato un problema endemico del basket italiano». Ario Costa, con i suoi 2.11 metri, ha segnato l’epopea di Pesaro con due scudetti e due Coppe Italia, ed ha rappresentato il primo centro moderno.

Denis Marconato (2.11) e Roberto Chiacig (2.10), entrambi vivaio Treviso prima di girovagare in lungo e in largo per lo stivale, sono stati gli ultimi centri con fisico e stazza, capaci di prendere posizione spalle a canestro. Contribuendo fattivamente alle ultime medaglie di prestigio dell’Italbasket. Andrea Bargnani (2.13), prima scelta assoluto del draft Nba 2006, ha rappresentato la vera rivoluzione del ruolo con le sue capacità balistiche che lo hanno portato a giocare oltre l’arco. Senza però incidere a livello di vittorie con la nazionale.

«La pallacanestro non va più di moda in Italia», questo il commento di Bogdan Tanjevic, ex coach della nazionale azzurra sulla crisi dei lunghi nel basket italiano. «Non è un caso che nella pallavolo ci sia stata un'esplosione di talenti sopra i 195 cm. Hanno sicuramente fatto qualcosa meglio di noi e soprattutto è più facile emergere». Uno sviluppo quello dei lunghi italiani che di anno in anno tarda ad arrivare, con esempi come Caruso rilegati in panchina o Totè che il ct Pozzecco non sembra vedere.

«Caruso per me ha fatto una scelta sbagliata, ma lo capisco, sicuramente Milano ha offerto delle cifre che le piccole-medie squadre non possono pareggiare. Il sistema è sbagliato, perché dovrebbe proteggere le squadre che non possono competere economicamente con le super potenze. I club sono costretti a vendere prima che effettivamente i prodotti dei vivai, o i giovani in generale, possano aver dato loro frutti. Su Totè invece, Pozzecco non ha un compito facile, ci sono passato. Difficile sfaldare un gruppo per inserire un nuovo giocatore. È più giusto forse puntare sulla continuità».

Un esempio, quello dell'Italbasket del passato che fa sì che da noi abbiano imparato Francia, Germania e Spagna, per poi addirittura superarci in tutto. Di pensiero leggermente diverso è Sandro Gamba, anche lui ex giocatore ed ex coach della nazionale azzurra, che sostiene che al problema che si presenta bisogna trovare una soluzione, e non necessariamente sulle convocazioni: «Anche quando giocavo io eravamo senza il centro super fisico di oltre due metri. Negli anni 50’, infatti, abbiamo giocato spesso pressing a tutto campo ed abbiamo alzato il ritmo sfruttando i lati positivi dei nostri fisici».

«Dipende dai tecnici, è una variabile, ogni allenatore deve fare il meglio possibile con la squadra che ha ed adattare le tattiche a seconda del roster a disposizione. Bisogna anche cambiare un po' con i giovani, magari metterli in campo e farli arrangiare, poi togliergli e spiegare l'errore». Una nazionale, dunque, che continua la disperata ricerca di un lungo che possa dare un futuro al ruolo in maglia azzurra, vista anche l'età che inizia ad avere ad esempio Nicolò Melli, fino ad ora inamovibile lungo dell’Italbasket.

 

Da Calebotta a Melli, gli anni ruggenti dell’Italia con centri veri

Nino Calebotta, 2.04, 1952 - 1968; 65 presenze e 410 punti;

Ottorino Flaborea, 1.95, 1957 - 1978; 129 presenza e 747 punti;

Alberto Merlati, 2.04, 1965 - 1975; 30 presenze e 123 punti;

Dino Meneghin, 2.04, 1965 - 1994; 271 presenze e 2947 punti;

Luciano Vendemini, 2.11, 1971 - 1977; 44 presenze e 157 punti;

Luigi Serafini, 2.10, 1971 - 1979; 112 presenze e 524 punti;

Vittorio Ferracini, 2.04, 1973 - 1982; 128 presenza e 504 punti;

Renzo Vecchiato, 2.07, 1977 - 1985; 201 presenze e 1439 punti;

Ario Costa, 2.11, 1977 - 1997; 193 presenze e 1048 punti;

Pietro Generali, 2.07, 1978 - 1983; 71 presenze e 458 punti;

Augusto Binelli, 2.15, 1984 - 1989; 95 presenze e 590 punti;

Flavio Carera, 2.06, 1985 - 1997; 129 presenze e 602 punti;

Stefano Rusconi, 2.08, 1987 - 1995; 94 presenze e 767 punti; 

Denis Marconato, 2.11, 1990 - 2006; 195 presenze e 1140 punti;

Alessandro Frosini, 2.09, 1992 - 1998; 98 presenze e 584 punti;

Roberto Chiacig, 2.10, 1994 - 2022; 188 presenze e 1475 punti;

Andrea Bargnani, 2.13, 2002 - 2017; 73 presenze e 1129 punti;

Nicolò Melli, 2.05, 2007 - presente; 124 presenze e 834 punti.



* per la rivista Basket Magazine

domenica 30 marzo 2025

Tiro da tre punti, croce e delizia

Tiro da tre punti, croce e delizia: Dan Peterson ha aperto la discussione chiedendone l'abolizione. Della Valle, Ruzzier e Veronesi fanno fronte comune: abolendolo si darebbe molto più peso alla fisicità degli atleti

Generazioni a confronto sul canestro della discordia

di Giovanni Bocciero e Alvise Baldan*

 

1984, A LIVELLO INTERNAZIONALE viene introdotto il tiro da tre punti nella pallacanestro. L’arco semiellittico viene disegnato su ogni campo da gioco, e il tirare con conseguente realizzazione vale un punto in più rispetto al semplice appoggio al tabellone o al tiro dalla media distanza. Una novità, una evoluzione, con tutti i suoi pregi e difetti. Questa invenzione, in realtà, era già stata sperimentata anni prima negli Stati Uniti, in particolare al college. È da anni che si discute di un suo forte abuso, a discapito del gioco che rende il basket il più bello sport al mondo. Dan Peterson ha recentemente dichiarato che lo abolirebbe, e a riguardo abbiamo ascoltato giocatori e allenatori, attuali e del passato, che su questa affermazione sono ampiamente divisi.

Amedeo Della Valle

Cosa pensi in merito alla dichiarazione di Dan Peterson che abolirebbe il tiro da tre punti?

«Ci sta che ognuno dica la propria opinione. Secondo me, la sua è stata una sorta di provocazione che credo sia difficile possa trovare un seguito nel basket moderno. Se togliamo il tiro da tre punti, forse, molto probabilmente le partite diventano un susseguirsi di spallate vicino al canestro. Quindi è evidente che la pensi diversamente rispetto a questo argomento».

Da tiratore, cosa ti passa per la testa se realizzi un filotto di canestri da tre punti, o al contrario ne sbagli tanti di seguito?

«Chiaramente come per qualsiasi cosa, quando funziona e va bene è molto più facile continuare a farle. Quando invece diventa complicato è molto più difficile ripeterlo. Penso però, che la forza di un tiratore s veda proprio nel momento di difficoltà, nel continuare a tirare e non rifiutare conclusioni. Quello è il più grande segno di un eccellente tiratore, che può fare una serata da 8/8 ma può farne anche una da 0/8».

Quale potrebbe essere un aggiustamento per far incidere magari meno il tiro da tre punti?

«Ad oggi proverei innanzitutto ad allargare il campo, visto gli atleti che calcano i campi. La pallacanestro potrebbe giovare di questa modifica, ma non dobbiamo dimenticare che il gioco è in continua evoluzione. Infatti, oggi stiamo vivendo la fase del tiro da tre punti, in passato altri stili di gioco, e in futuro cambierà ancora in base alle tendenze del momento».

Michele Ruzzier

Dan Peterson abolirebbe il tiro da tre punti, tu cosa ne pensi?

«Io personalmente non lo abolirei, e non la trovo una cosa giusta perché è l’evoluzione della pallacanestro. Rappresenta per ogni squadra un’arma in più, a maggior ragione per la fisicità che si vede oggi su un campo. Un giocatore deve tirare per forza bene da tre punti per cercare di aprire le difese. Il basket è uno sport in continua evoluzione, completo così com’è con il tiro da tre punti».

Il tiro da tre punti è ormai trasversale, nel senso che è un’arma sia per un esterno che per un lungo?

«È un’arma sulla quale c’è bisogno comunque di lavorarci. E se diventi bravo, è giusto che la sfrutti a tuo vantaggio. Ed oggi non dipende neppure dai ruoli. Prima, magari, il tiro da tre era usato di più dalle guardie, ma oggi lo possono fare anche ragazzi di 2,20 metri. E credo che sia una cosa positiva, e non certo negativa».

Quanto influenza segnare o sbagliare una serie consecutiva di conclusioni?

«Non so esattamente in che percentuale, ma oltre all’allenamento il tiro è tanto mentale. Se segni una tripla e ti capita subito un altro tiro aperto, che è giusto, devi prenderlo assolutamente. Dall’altro lato, anche se ne hai sbagliati un paio prima, ma la squadra costruisce un buon tiro e la palla arriva a te, è comunque da prendere. Magari sentirai il pallone pesare un po’ di più, ma è certamente giusto tirare».

Hai giocato con Marco Belinelli, uno dei migliori tiratori italiani in assoluto, cosa ci puoi raccontare di lui?

«Quando ero alla Virtus lo guardavo con gli occhi a cuoricino, perché era davvero uno spettacolo vederlo anche solo in allenamento. Non l’ho mai visto fare esercizi particolari per allenare il suo tiro. Semplicemente ha una mentalità diversa, pensa di segnare ogni singolo tiro che prende. Questo fa di lui un pericolo costante, perché anche se ha sbagliato i tre tiri precedenti, prenderà il quarto con la stessa sicurezza di chi è in striscia positiva».

Giovanni Veronesi

Abolire il tiro da tre punti, per Peterson, gioverebbe al basket. Per te?

«È normale che rispetto al basket di Peterson oggi si giochi un’altra pallacanestro. Ci sono spaziature e situazioni diverse, complice l’evoluzione del gioco. Ovvio che non cambierei nulla».

Cos’è che differenzia un tiratore, che segni o sbagli?

«Per un tiratore è importante non perdere mai la fiducia, perché altrimenti non può neppure definirsi un tiratore. E infatti, ci sono tanti giocatori che hanno magari vissuto soltanto un periodo felice. Nel mio caso posso dire di avere avuto sempre grande fiducia, sia da parte di allenatori e compagni che a livello personale nei miei mezzi. Poi è naturale che ci sono momenti positivi e altri negativi, ma bisogna sempre avere il coraggio di continuare a tirare, senza esagerare».

Il tiro da tre punti serve più allo spettacolo che al gioco?

«Credo che bisogna fare una distinzione tra il basket che si vede in Nba e quello in Europa. In America effettivamente si tira tanto da tre punti, e il più delle volte in situazioni del tutto estemporanee al gioco. In Europa no, perché anche se si abusa del tiro da tre, questo rientra più in un contesto di costruzione del gioco. O almeno questo è il mio pensiero. Poi ovvio, se la pallacanestro ha un successo planetario ed è seguita in tutto il mondo è anche per giocatori come Steph Curry e Klay Thompson che sono tra i migliori interpreti del tiro da tre punti».

Valerio Bianchini

Qual è il suo pensiero riguardo all’uso del tiro da tre punti nella pallacanestro di oggi?

«Il tiro da tre punti lo ricordo addirittura come un’innovazione che fece l’Aba (American Basketball Association, lega professionistica americana di pallacanestro tra il 1967 ed il 1976, ndr), usandolo inizialmente in circostanze speciali, come per esempio cercare di recuperare alla fine della partita. All’inizio non era considerato un elemento istituzionale del gioco, era un elemento normale. Ricordo che nell’84/85 Mike D’Antoni, che normalmente non era un gran attaccante, grazie ai blocchi di Dino Meneghin cominciò a tirare con i piedi per terra perché i difensori uscivano poco, restando così schiacciati sul blocco. Iniziò così ad avere più coraggio, più iniziativa, diventando un tiratore dall’arco. Per molti anni il tiro da tre punti rimase utilizzato in certe circostanze, non nel modo ossessivo odierno. Addirittura anche i lunghi cominciarono, tramite il pick and roll, a preferire il tiro da più lontano piuttosto di un appoggio da dentro il pitturato. Questo sinceramente rende il gioco un po' noioso, ripetitivo. Gli allenatori hanno smesso di fare ricerca, di fare sperimentazione. Nel basket classico il gioco delle squadre in campo veniva immediatamente identificato per l'allenatore che lo governava. Per esempio il gioco di Guerrieri, di Zorzi, di Peterson. C'era molta più coerenza tra la teoria del gioco di un allenatore rispetto all’esecuzione in campo. Adesso, invece, c’è un’omologazione dove la maggior parte gioca allo stesso modo. C'è da dire, però, che la pallacanestro ha reso ancora più imprevedibile le partite. L’altra faccia di questa medaglia è che non c’è più meritocrazia, tu puoi giocare benissimo ma se hai scarse percentuali al tiro da tre perdi la partita contro uno che sta giocando male ma con buone percentuali da tre. A portare a questa deriva tecnica un po' insensata è stata la Fiba e il suo regolamento, perché il basket concettualmente è sempre stato un gioco che ogni quattro anni cambiava il suo regolamento. Il gioco si adeguava allo sviluppo sociale dell'area popolare in cui era inserito e variava soprattutto in relazione ai marchingegni tecnici. La Fiba si riduce a seguire l’Nba, ma senza una ragione. Nello smile, nei trenta secondi, nello stesso tiro da tre, non seguendola, però, nei tre secondi difensivi che sono importanti per consentire la penetrazione nell’uno contro uno. Attualmente il gioco si sta riducendo sempre di più all’uso scriteriato del pick and roll, alla cancellazione del lavoro in post, sia alto che basso, ed al rifugio nel tiro da tre. Certamente non è questo il vero basket».

Nelle sue esperienze tra Cantù e Roma, ha vinto due scudetti e due Coppe dei Campioni senza il tiro dalla lunga distanza. Dopo l’introduzione di questa nuova regola è stato più facile o più difficile allenare?

«È stato più facile allenare perché il tiro da tre era utilizzato senza, tuttavia, diventarne dipendenti. Adesso per gli allenatori è più facile. Non insegnano più i movimenti sofisticati del post basso ai pivot, per passare più volte la palla fuori per un tiro da tre. Dal punto di vista estetico è una cosa inguardabile, però la situazione è questa. Conta solo l’uno contro uno, il gesto spettacolare della superstar della squadra».

Ha un aneddoto da raccontarci legato al tiro da tre punti?

«Quello più clamoroso fu con la Virtus Roma, durante la stagione 1990/91, quando eravamo sotto di due punti contro Caserta ad un secondo dalla fine. Ricordo una rimessa a bordo campo per Maurizio Ragazzi che, ricevuta la palla a tre metri dalla nostra linea di fondo, segnò il canestro della vittoria».

Bogdan Tanjevic

Cosa ne pensa del tiro da tre punti?

«Il mio pensiero è molto simile a quello di Dan Peterson. Penso sia meglio il vecchio modo di giocare piuttosto che il continuo aumento del tiro dalla lunga distanza. Si è arrivati addirittura a parlare dell’inserimento del tiro da quattro. Negli ultimi vent’anni i giocatori sono diventati dei grandi tiratori e le distanze, soprattutto grazie all’atletismo, sono diventate facili da eseguire. In Nba fino a trent’anni fa esistevano solo tre o quattro tiratori nel campionato. Adesso sono diventati centocinquanta. Un pro può essere legato ai giocatori europei, un esempio di tecnica di tiro e di precisione che arrivarono ad un livello fantastico di capacità del tiro dalla lunga distanza. Dei contro, invece, possono essere il poco gioco sotto canestro, il mancato utilizzo dei pivot, le poche penetrazioni ed il tiro da quattro metri dei campioni come Jordan e Dalipagic. In passato i grandi tiratori non si concentravano esclusivamente sul tiro da tre punti e il gioco era molto più interessante, più affascinante. Adesso si è talmente fissati nel trovare qualcuno di libero fuori dall’arco, di scaricargli la palla anche quando sarebbe molto più intelligente segnare due punti sicuri. La linea dei tre punti la chiamo il “bordo della piscina”, come se ci fosse dell’acqua dentro. Non bisogna entrarci troppo. Questa furia di tirare e di correre in avanti non la vedo bene. Mi piace di più il basket di prima».

Il tiro da tre punti è diventato una sorta di arma offensiva, diciamo, troppo abusata, troppo utilizzata?

«Troppo abusata, non c'è dubbio. Si vedono molte squadre che tirano più da tre punti che da due. Così il gioco diventa meno attrattivo. In poche parole non bisogna focalizzarsi troppo sul tiro da tre. Per fare un esempio, quando Dalipagic segnò settanta punti lo fece con soli quattro canestri da tre punti in tutta la partita. Poteva tranquillamente essere il capocannoniere Nba, se ci fosse andato».

Antonello Riva

Qual è la sua opinione sul tiro da tre punti?

«Nei primi anni ci fu un grande clamore che richiamò tanta attenzione attorno a questa nuova regola, al nostro movimento.

Se poi, dopo tanto tempo, dobbiamo analizzare se è stato un pro o contro, i dubbi sono aumentati. Una cosa su tutti: il gioco è stato veramente stravolto e in maniera netta. Mi ricordo gli anni in cui giocavo a Milano quando era allenata da Mike D’Antoni. Lui sosteneva che statisticamente non conveniva andare a tirare da due ma conveniva tentare più tiri possibili dalla linea dell’arco. Ed è proprio questo, come stavo dicendo, che ha stravolto il modo di giocare. Il tiro da due, il cercare di andare vicino al canestro è praticamente quasi sparito. Poi, ecco, bisogna vedere se è effettivamente più spettacolare, più bello da vedersi oggi, o se era più bello un tempo quando non c’era il tiro da tre e si cercava di costruire maggiormente il gioco d'attacco».

Lei pensa, dunque, che sia diventato una sorta di arma offensiva un po' troppo abusata?

«Sì, in particolar modo perché questa linea non è così lontana dall’Nba. Vediamo diversi giocatori tirare da addirittura nove o ancora più metri. Mantenerla così com’è, oggi in Italia, è troppo utilizzata. Penso, tuttavia, che per lo spettacolo e per gli spettatori, vedere un tiro o un canestro da tre sia sempre un gesto tecnico spettacolare, anche se ha tolto un pochino la vera essenza, la vera sostanza della pallacanestro».

Se lei fosse un giocatore di questi tempi, si adatterebbe al modo di giocare attuale, ad un ritmo più elevato e a un numero maggiore di tiri da tre punti, o cercherebbe di rimanere al gioco di qualche anno fa, dove il tiro da tre punti non era così esasperato e si puntava un po' di più al gioco tecnico?

«No, è naturale che bisogna sempre adeguarsi ai tempi. Se fossi un giocatore di questi tempi mi adeguerei sicuramente alle nuove situazioni. Però vedo che alcune volte i giocatori, che potrebbero fare un arresto e tiro tranquillo dai tre, quattro metri, vanno dritti al ferro o cercano la soluzione nel tiro dalla lunga distanza. Negli anni passati, si utilizzava la finta da tre punti, un palleggio, due palleggi ed un arresto, ripeto a tre o quattro metri. Questo movimento oggi è sparito completamente».

Un’ultima domanda: ha un aneddoto su questo argomento da raccontare?

«Mi ricordo ancora benissimo la prima partita quando era appena entrato in vigore. Era la prima partita del campionato 1984/85, successivo alle Olimpiadi di Los Angeles, quando con Cantù andai a giocare a Pesaro che al tempo aveva un allenatore americano che si era messo a difendere a zona. Non mi sembrava vero e quel giorno realizzai nove o dieci canestri da tre punti. Da un momento all’altro ci aspettavamo che Pesaro passasse a difendere individualmente, invece continuò con la difesa a zona. Era la prima partita, la prima volta che venivano conteggiati i tiri al di là dell'arco. Era, in poche parole, una novità».

Nonostante le differenti posizioni, le statistiche ci possono offrire degli spunti interessanti. Perché non sempre tirare e segnare tanto ti permette di vincere. Trento e Varese, ad esempio, sono le due squadre della serie A che hanno terminato il maggior numero di partite con almeno dieci triple segnate, eppure le posizioni in classifica sono molto differenti. In media una giusta percentuale dall’arco che si può ritenere positiva è del 35%, che significa poco più di una realizzazione su tre tentativi. Eppure con due canestri su tre dalla media distanza o addirittura più vicino al canestro, e dunque con una probabilità maggiore di riuscire a segnare, frutterebbe 4 punti. Che batterebbero i 3 realizzati dall’arco.

* per la rivista Basket Magazine