Intervista a cuore aperto con uno dei giocatori più emblematici della pallacanestro italiana, in cui ha lasciato una traccia indelebile
El Diablo, sulla cresta dell'onda (del mare)
«Ho chiuso col
basket. Dopo Brescia non mi ha chiamato più nessuno». Ma la pubblicazione della
sua autobiografia ha permesso ad Enzo Esposito di ritornare solo per un po' in
quel mondo che ha frequentato per oltre trent’anni, prima da giocatore e poi da
allenatore. Non gli piace vivere nel passato, per questo si è lasciato alle
spalle tutto ed è volato a Gran Canaria, dove, viaggiando in caravan, insegue
le onde e si prende cura di sé stesso.
di Giovanni
Bocciero*
Ha fatto impazzire di
gioia le tifoserie delle squadre per cui ha giocato, ma allo stesso tempo si è
attirato la malevolenza di quelle avversarie proprio per il suo modo di giocare
verace e sanguigno. In un modo o in un altro, Enzo Esposito ha di sicuro
infiammato i parquet di tutta Italia. Ed è raccontato per intero nella sua
autobiografia “El Diablo, vita e miracoli dell’ultimo poeta del basket
italiano”, libro pubblicato dall’associazione di tifosi Il Fortitudino.
«A me non piace
ricordare le cose del passato - esordisce esplicito, come nel suo carattere,
Esposito -. Certo, fa piacere che siano successe, ma per come la vedo io nel guardare
troppo indietro si fa poi fatica ad andare avanti. È normale che fare comunque
un tuffo nel passato fa riemergere tanti episodi legati a successi, delusioni,
eventi particolari che fanno piacere. Tutto ciò è servito per scrivere questo
libro che è stato fatto davvero molto bene, con tante foto e diversi ritagli di
articoli di giornale che ne hanno fatto un volume veramente completo. E poi ha
uno scopo benefico, e fa ancora più piacere quando c’è un fine più grande».
È papà Biagio che conserva gelosamente qualsiasi cosa riguardi lo scugnizzo casertano. Nella loro casa di Caserta ha una stanza completamente piena di memorabilia oltre che di foto. Tante delle quali sono servite, appunto, per rendere ancora più di valore il libro. Come quella dell’esordio in serie A ad appena quindici anni, gettato nella mischia da Bogdan Tanjevic in una sfida a Livorno. Volume impreziosito dalle tante testimonianze, dagli aneddoti e dai racconti. Il più emblematico, forse, quello dei quindici tifosi fortitudini partiti da Bologna per andarlo a vedere giocare, o forse sarebbe meglio dire per andarlo a trovare, visto il legame, a Toronto.
L’ULTIMA VOLTA CHE
ABBIAMO VISTO Esposito su di un campo, però, era sul finire del 2020,
allenatore di Brescia prima che arrivasse la rescissione. «Il mio post Covid è
stato abbastanza traumatico - ha dichiarato con un po' di magone -. Prima c’era
stata la comunque buona stagione di Caserta nonostante la retrocessione, poi i
successi di Pistoia e la prima ottima annata a Brescia. Con la pandemia è stata
una lotteria un po’ per tutti, e purtroppo per me le cose sono diventate
negative. Si sono verificati così tanti episodi che mi hanno lasciato il segno,
anche extra cestistici, che mi hanno fatto allontanare effettivamente dal
basket».
Riposte nel
cassetto casacche, pantaloncini e scarpette, abituato ad utilizzare anche
quando allenava, ha ripercorso la sua carriera a ritroso. E questa l’ha portato
in un luogo dove ha giocato per pochi mesi dal gennaio del 2002. «Mi sono
trasferito a Gran Canaria, dove ho tante amicizie, ed ho iniziato una vita
completamente diversa. I primi anni ho pure collaborato con una accademia che
reclutava ragazzi a livello internazionale per poi facilitare il loro
trasferimento negli Stati Uniti, ma adesso sono due anni che mi dedico solo a
me stesso. Mi piace fare bodyboard, che è una versione differente del surf, e
mi godo la vita».
Anche se «la pallacanestro è un capitolo chiuso», come ripete più volte, ogni tanto torna ad allacciarsi quelle scarpette perché «capita che per qualche amico che ha i figli che giocano, faccia degli allenamenti privati per dargli un’occhiata e qualche consiglio. Però per quanto riguarda il basket inteso come giocatori e club, non ne ho più idea perché non lo seguo da almeno tre anni. Ormai viaggio in caravan e sono sempre in giro alla ricerca del posto migliore dove trovare le onde. Vivo in un mondo a parte ed ho staccato completamente col basket».
Enzo Esposito a Caserta (Foto Filauro) |
SONO DI DOMINIO
PUBBLICO le parole dell’ex general manager di Caserta, Marco Atripaldi, rimasto
sbalordito dalla quantità di conoscenze che aveva Esposito negli States.
Durante un viaggio dei due nell’estate del 2014, per andare a vedere le partite
della Summer League di Las Vegas e monitorare qualche giocatore da portare
all’ombra della Reggia, chiunque conosceva El Diablo. E proprio per questi suoi
molti contatti, oltre all’esperienza da giocatore in Nba, covava il desiderio un
giorno di allenare al college.
«Continuo a
collaborare con una società in Italia, la Hoopers Bridge, che si occupa
principalmente di reclutamento di ragazzi che vogliono provare a fare
un’esperienza negli Stati Uniti. Do una mano, ma ho abbandonato anche l’idea di
poter allenare al college in America. Ricominciare ogni volta da zero, per
dimostrare cosa puoi fare o cosa sai fare non è semplice. Si arriva ad una età,
come la mia, in cui non puoi più fare un passo avanti ed uno indietro. Ormai
sono per guardare solo in avanti, sempre, altrimenti per usare una metafora
legata all’acqua, le onde ti travolgono e rischi che ti fai male».
Per dare l’idea di cosa significa davvero aver chiuso con il basket, Esposito non legge neppure i giornali spagnoli, e della vicenda dell’azzurrino Dame Sarr sa poco o nulla. «So che ha lasciato il Barcellona e che andrà negli Stati Uniti, magari in Nba (ma non compare nella lista dei 106 atleti iscritti per il draft di questa estate perché non si è dichiarato, ndr). Credo comunque che in Ncaa sia un tipo di giocatore che possa davvero fare sfracelli. Ma mi limito a dire questo perché davvero non seguo più la pallacanestro giocata, neppure per quel che concerne il campionato spagnolo. In tre anni sono andato a vedere soltanto due volte le partite del Gran Canaria. Una volta mi hanno invitato a vedere il derby; e un’altra volta perché giocava contro Trento, e l’assistente allenatore Fabio Bongi è un mio amico perché abbiamo lavorato insieme a Pistoia. Per questo sono passato a salutarlo».
TRENTO È UNA CITTÀ
CHE RICORRE spesso nella sua vita. Difatti, la sua carriera da allenatore è
iniziata proprio nella valle del fiume Adige: stagione 2009/10. «Quello fu il
mio primo anno in assoluto da coach, con Trento che era stata ripescata dopo la
retrocessione per fare di nuovo la serie A Dilettanti. C’era la nuova società,
che iniziò il suo cammino con Salvatore Trainotti in qualità di dirigente, e
sfiorammo i playoff. Non lo sapevo ma mi fa piacere che abbia vinto la Coppa
Italia perché è una piazza dove sono stato bene e trattato ancor meglio.
Proprio quest’anno, in occasione dell’unica partita che sono andato a vedere,
ho conosciuto coach Paolo Galbiati. Siamo stati avversari, e sono rimasto
felice di averlo potuto conoscere perché tutto l’ambiente è composto da persone
serie che lavorano molto bene».
Casertano di
nascita, bolognese d’adozione, l’Italia per El Diablo è ormai solo una tappa
fugace. «Manco da Caserta da un anno, ed ovviamente non mi sono interessato ai
risultati della squadra. Le uniche volte che mi capita di passare in città sono
per festività particolari, come ad esempio il compleanno di mia madre. Ma ormai
ci vado una o due volte l’anno. E l’ultima volta non sono rimasto per neppure
48 ore prima di ritornare a Gran Canaria. Neanche gli amici più stretti mi
informano sulla Juvecaserta, perché sanno che ormai sono fuori dal giro. Quando
mi sono incontrato con loro abbiamo parlato di tutto, tranne che di
pallacanestro».
«A Bologna, invece, sono stato tre giorni per la presentazione del libro, era appena arrivato Attilio Caja come allenatore». E proprio quel fortuito caso ha fatto sì che gli telefonasse Rick D’Alatri dall’America per chiedergli se fosse vero che andava ad allenare la Fortitudo. «Ma quando mai. Non so più nulla perché ho chiuso col basket. Al momento sto solo pensando a me stesso e a come organizzarmi nel miglior modo possibile per vivere sull’isola, dove ho una vita meravigliosa, per essere pronto ad ogni evenienza. Ma nulla a che vedere con la pallacanestro. Ripeto, faccio surf, skateboard, palestra, ma di sport di squadra non ne ho più idea. Non ne ho proprio il desiderio, anche perché dall’Italia non ho più sentito nessuno».
LE PAROLE DEL PRIMO
GIOCATORE italiano ad aver segnato punti in Nba vengono avvolte anche da amarezza
e dispiacere, perché «dai procuratori ai coach, non ho più ricevuto una
telefonata. È una cosa abbastanza triste, non per me ma per far capire come
funziona questo mondo. Fin quando ero nel giro sentivo quasi settimanalmente
gli agenti e i colleghi allenatori, ma dopo un anno che avevo staccato sono
spariti tutti. Quando pensi a queste cose, capisci che non ne vale neppure più
la pena, perché dopo aver passato trent’anni sui campi ci si riduce a non
ricevere neanche più un messaggio d’auguri».
Il soprannome El Diablo glielo hanno appiccicato proprio alla Fortitudo, dopo una partita giocata ‘a metà’ in quel di Pistoia. Altra città a lui cara. Nel primo tempo gioca male, non segna neppure un punto e allora Sergio Scariolo lo fa sedere in panchina. Ne nasce uno scontro, fumantino come è, e nel secondo tempo riversa tutta la rabbia accumulata in campo: segna 29 punti. È un’iradiddio, o meglio dire un diavolo. Tiratore sì, ma amava anche fare a brandelli le difese con le sue azioni spesso e volentieri immaginifiche. Ancora oggi non ci si capacita di certe sue giocate.
IL SUO RAPPORTO CON
GLI ALLENATORI non è sempre stato dei migliori, proprio per il suo
temperamento. Eppure addirittura Ettore Messina, suo ct in occasione degli
Europei del 1995, ha raccontato nel libro di aver imparato tanto da Esposito. E lui ha fatto tesoro degli
insegnamenti dei tanti grandi tecnici che ha avuto quando è passato dall’altra
parte della barricata. «Quando cambi ruolo è importante mettere da parte quello
che è stato quando eri giocatore, ed è fondamentale mettersi a disposizione
della squadra. Il carattere fumantino, magari, ti permette di gestire con
maggiore personalità le situazioni, dall’arbitro al giornalista, dal dirigente
al tifoso».
Forse, pensare che sarebbe diventato a sua volta un coach era una
cosa inimmaginabile. Ma da allenatore, El Diablo, ha cercato di portare la sua
idea di pallacanestro. Molto diversa dall’abuso del tiro da tre che è in voga
adesso. «Il gioco è cambiato. Ma questo già quindici anni fa, con i primi
lunghi che hanno iniziato a stazionare in maniera fissa sul perimetro. A me
assolutamente non piace tutto questo tiro da tre, e quando allenavo mi davo
l’obiettivo di costruire squadre sempre equilibrate».
«Pensa ai giocatori
che ho avuto, Nathan Boothe, Alex Kirk, Jack Cooley, Dejan Ivanov, ho sempre
cercato di prendere un lungo che potesse anche creare il gioco interno. Per me
nella pallacanestro va utilizzato tutto il campo, invece oggi si gioca solo in contropiede
e col tiro da tre. Il basket va in questa direzione, e bisogna dunque
adeguarsi. Ma il problema è che i ragazzini non lavorano più sui fondamentali
ma solo sull’atletica e il tiro. Questo va a vantaggio dello spettacolo, ma
quando ciò non avviene si assistono a partite dall’indubbia bellezza».
Esposito ha
rappresentato il ponte tra l’Italia e gli Stati Uniti. Ne ha conosciuto le
abitudini, il modo di pensare e come lavorano. Per questo, chi meglio di lui
può dare un giudizio sulla nascente lega della Nba Europe. «Gli americani sono
i numeri uno per il business. C’è poco da dire. Non so di cosa si tratti nello
specifico questa nuova lega, ma ci vedo tanto di business. Loro non fanno
niente per niente, quindi oltre alla pallacanestro c’è una grossa fetta
percentuale che riguarda il merchandising ed il reclutamento».
«È la direzione globale che sta prendendo il mondo. A me personalmente non piace, e non la considero una cosa vantaggiosa ed interessante per la pallacanestro europea. La potrei quasi definire come una G League fatta oltreoceano, con franchigie che saranno loro affiliate. E questo permetterà di abbattere le barriere e spianare molto più facilmente la strada per i giovani - ha concluso Enzo Esposito - che saranno attratti ad andare a giocare negli Stati Uniti».
Esposito da giocatore in Nba (foto Google)
Esposito è stato il primo colpo dell’era Seragnoli
L’associazione Il Fortitudino ha iniziato da alcuni anni ad intraprendere una sua linea editoriale con la pubblicazione di libri che raccontano giocatori passati per la Effe. Si è iniziato con Gary Schull e Charles Jordan, per arrivare a Enzo Esposito e a “El Diablo, vita e miracoli dell’ultimo poeta del basket italiano”. Già c’è stata una prima donazione col ricavato del volume al partner storico del gruppo di tifosi dell’Aquila, ovvero il Willy The King Group, associazione che si occupa della promozione della cultura dell’inclusione dei soggetti diversamente abili. Il libro ha avuto due ristampe, ed ha raggiunto già le 700 copie vendute in tutta Italia, dalla Sicilia al Friuli. Per chi lo volesse acquistare e farselo spedire può scrivere a info@ilfortitudino.it.
Dopo la
presentazione a Bologna, è prevista un’altra serata promozionale a Caserta, e
forse una ad Imola. Tutto dipende dalla disponibilità di Esposito. «Nonostante
sia rimasto solo due anni alla Fortitudo, senza vincere nulla - ha detto
Gabriele Pozzi, curatore del volume -, gode di un affetto anche maggiore di
tanti altri campioni. Nel giorno del firmacopie c’era una fila immensa al
PalaDozza. È stato il primo grande acquisto dell’era Seragnoli, in una squadra
che giocava un basket strepitoso che seppur con una penalizzazione arrivò ai
playoff qualificandosi per la Coppa Korac. Quando la tifoseria ricorda quei due
anni che ha giocato per la Effe, sorride per la gioia».
* per la rivista Basket Magazine