martedì 3 giugno 2025

El Diablo, sulla cresta dell'onda (del mare): l'intervista a cuore aperto

Intervista a cuore aperto con uno dei giocatori più emblematici della pallacanestro italiana, in cui ha lasciato una traccia indelebile

El Diablo, sulla cresta dell'onda (del mare) 

«Ho chiuso col basket. Dopo Brescia non mi ha chiamato più nessuno». Ma la pubblicazione della sua autobiografia ha permesso ad Enzo Esposito di ritornare solo per un po' in quel mondo che ha frequentato per oltre trent’anni, prima da giocatore e poi da allenatore. Non gli piace vivere nel passato, per questo si è lasciato alle spalle tutto ed è volato a Gran Canaria, dove, viaggiando in caravan, insegue le onde e si prende cura di sé stesso.

 

di Giovanni Bocciero*

 

Ha fatto impazzire di gioia le tifoserie delle squadre per cui ha giocato, ma allo stesso tempo si è attirato la malevolenza di quelle avversarie proprio per il suo modo di giocare verace e sanguigno. In un modo o in un altro, Enzo Esposito ha di sicuro infiammato i parquet di tutta Italia. Ed è raccontato per intero nella sua autobiografia “El Diablo, vita e miracoli dell’ultimo poeta del basket italiano”, libro pubblicato dall’associazione di tifosi Il Fortitudino.

«A me non piace ricordare le cose del passato - esordisce esplicito, come nel suo carattere, Esposito -. Certo, fa piacere che siano successe, ma per come la vedo io nel guardare troppo indietro si fa poi fatica ad andare avanti. È normale che fare comunque un tuffo nel passato fa riemergere tanti episodi legati a successi, delusioni, eventi particolari che fanno piacere. Tutto ciò è servito per scrivere questo libro che è stato fatto davvero molto bene, con tante foto e diversi ritagli di articoli di giornale che ne hanno fatto un volume veramente completo. E poi ha uno scopo benefico, e fa ancora più piacere quando c’è un fine più grande».

È papà Biagio che conserva gelosamente qualsiasi cosa riguardi lo scugnizzo casertano. Nella loro casa di Caserta ha una stanza completamente piena di memorabilia oltre che di foto. Tante delle quali sono servite, appunto, per rendere ancora più di valore il libro. Come quella dell’esordio in serie A ad appena quindici anni, gettato nella mischia da Bogdan Tanjevic in una sfida a Livorno. Volume impreziosito dalle tante testimonianze, dagli aneddoti e dai racconti. Il più emblematico, forse, quello dei quindici tifosi fortitudini partiti da Bologna per andarlo a vedere giocare, o forse sarebbe meglio dire per andarlo a trovare, visto il legame, a Toronto.

L’ULTIMA VOLTA CHE ABBIAMO VISTO Esposito su di un campo, però, era sul finire del 2020, allenatore di Brescia prima che arrivasse la rescissione. «Il mio post Covid è stato abbastanza traumatico - ha dichiarato con un po' di magone -. Prima c’era stata la comunque buona stagione di Caserta nonostante la retrocessione, poi i successi di Pistoia e la prima ottima annata a Brescia. Con la pandemia è stata una lotteria un po’ per tutti, e purtroppo per me le cose sono diventate negative. Si sono verificati così tanti episodi che mi hanno lasciato il segno, anche extra cestistici, che mi hanno fatto allontanare effettivamente dal basket».

Riposte nel cassetto casacche, pantaloncini e scarpette, abituato ad utilizzare anche quando allenava, ha ripercorso la sua carriera a ritroso. E questa l’ha portato in un luogo dove ha giocato per pochi mesi dal gennaio del 2002. «Mi sono trasferito a Gran Canaria, dove ho tante amicizie, ed ho iniziato una vita completamente diversa. I primi anni ho pure collaborato con una accademia che reclutava ragazzi a livello internazionale per poi facilitare il loro trasferimento negli Stati Uniti, ma adesso sono due anni che mi dedico solo a me stesso. Mi piace fare bodyboard, che è una versione differente del surf, e mi godo la vita».

Anche se «la pallacanestro è un capitolo chiuso», come ripete più volte, ogni tanto torna ad allacciarsi quelle scarpette perché «capita che per qualche amico che ha i figli che giocano, faccia degli allenamenti privati per dargli un’occhiata e qualche consiglio. Però per quanto riguarda il basket inteso come giocatori e club, non ne ho più idea perché non lo seguo da almeno tre anni. Ormai viaggio in caravan e sono sempre in giro alla ricerca del posto migliore dove trovare le onde. Vivo in un mondo a parte ed ho staccato completamente col basket».

Enzo Esposito a Caserta (Foto Filauro)

SONO DI DOMINIO PUBBLICO le parole dell’ex general manager di Caserta, Marco Atripaldi, rimasto sbalordito dalla quantità di conoscenze che aveva Esposito negli States. Durante un viaggio dei due nell’estate del 2014, per andare a vedere le partite della Summer League di Las Vegas e monitorare qualche giocatore da portare all’ombra della Reggia, chiunque conosceva El Diablo. E proprio per questi suoi molti contatti, oltre all’esperienza da giocatore in Nba, covava il desiderio un giorno di allenare al college.

«Continuo a collaborare con una società in Italia, la Hoopers Bridge, che si occupa principalmente di reclutamento di ragazzi che vogliono provare a fare un’esperienza negli Stati Uniti. Do una mano, ma ho abbandonato anche l’idea di poter allenare al college in America. Ricominciare ogni volta da zero, per dimostrare cosa puoi fare o cosa sai fare non è semplice. Si arriva ad una età, come la mia, in cui non puoi più fare un passo avanti ed uno indietro. Ormai sono per guardare solo in avanti, sempre, altrimenti per usare una metafora legata all’acqua, le onde ti travolgono e rischi che ti fai male».

Per dare l’idea di cosa significa davvero aver chiuso con il basket, Esposito non legge neppure i giornali spagnoli, e della vicenda dell’azzurrino Dame Sarr sa poco o nulla. «So che ha lasciato il Barcellona e che andrà negli Stati Uniti, magari in Nba (ma non compare nella lista dei 106 atleti iscritti per il draft di questa estate perché non si è dichiarato, ndr). Credo comunque che in Ncaa sia un tipo di giocatore che possa davvero fare sfracelli. Ma mi limito a dire questo perché davvero non seguo più la pallacanestro giocata, neppure per quel che concerne il campionato spagnolo. In tre anni sono andato a vedere soltanto due volte le partite del Gran Canaria. Una volta mi hanno invitato a vedere il derby; e un’altra volta perché giocava contro Trento, e l’assistente allenatore Fabio Bongi è un mio amico perché abbiamo lavorato insieme a Pistoia. Per questo sono passato a salutarlo».

TRENTO È UNA CITTÀ CHE RICORRE spesso nella sua vita. Difatti, la sua carriera da allenatore è iniziata proprio nella valle del fiume Adige: stagione 2009/10. «Quello fu il mio primo anno in assoluto da coach, con Trento che era stata ripescata dopo la retrocessione per fare di nuovo la serie A Dilettanti. C’era la nuova società, che iniziò il suo cammino con Salvatore Trainotti in qualità di dirigente, e sfiorammo i playoff. Non lo sapevo ma mi fa piacere che abbia vinto la Coppa Italia perché è una piazza dove sono stato bene e trattato ancor meglio. Proprio quest’anno, in occasione dell’unica partita che sono andato a vedere, ho conosciuto coach Paolo Galbiati. Siamo stati avversari, e sono rimasto felice di averlo potuto conoscere perché tutto l’ambiente è composto da persone serie che lavorano molto bene».

Casertano di nascita, bolognese d’adozione, l’Italia per El Diablo è ormai solo una tappa fugace. «Manco da Caserta da un anno, ed ovviamente non mi sono interessato ai risultati della squadra. Le uniche volte che mi capita di passare in città sono per festività particolari, come ad esempio il compleanno di mia madre. Ma ormai ci vado una o due volte l’anno. E l’ultima volta non sono rimasto per neppure 48 ore prima di ritornare a Gran Canaria. Neanche gli amici più stretti mi informano sulla Juvecaserta, perché sanno che ormai sono fuori dal giro. Quando mi sono incontrato con loro abbiamo parlato di tutto, tranne che di pallacanestro».

«A Bologna, invece, sono stato tre giorni per la presentazione del libro, era appena arrivato Attilio Caja come allenatore». E proprio quel fortuito caso ha fatto sì che gli telefonasse Rick D’Alatri dall’America per chiedergli se fosse vero che andava ad allenare la Fortitudo. «Ma quando mai. Non so più nulla perché ho chiuso col basket. Al momento sto solo pensando a me stesso e a come organizzarmi nel miglior modo possibile per vivere sull’isola, dove ho una vita meravigliosa, per essere pronto ad ogni evenienza. Ma nulla a che vedere con la pallacanestro. Ripeto, faccio surf, skateboard, palestra, ma di sport di squadra non ne ho più idea. Non ne ho proprio il desiderio, anche perché dall’Italia non ho più sentito nessuno».

LE PAROLE DEL PRIMO GIOCATORE italiano ad aver segnato punti in Nba vengono avvolte anche da amarezza e dispiacere, perché «dai procuratori ai coach, non ho più ricevuto una telefonata. È una cosa abbastanza triste, non per me ma per far capire come funziona questo mondo. Fin quando ero nel giro sentivo quasi settimanalmente gli agenti e i colleghi allenatori, ma dopo un anno che avevo staccato sono spariti tutti. Quando pensi a queste cose, capisci che non ne vale neppure più la pena, perché dopo aver passato trent’anni sui campi ci si riduce a non ricevere neanche più un messaggio d’auguri».

Il soprannome El Diablo glielo hanno appiccicato proprio alla Fortitudo, dopo una partita giocata ‘a metà’ in quel di Pistoia. Altra città a lui cara. Nel primo tempo gioca male, non segna neppure un punto e allora Sergio Scariolo lo fa sedere in panchina. Ne nasce uno scontro, fumantino come è, e nel secondo tempo riversa tutta la rabbia accumulata in campo: segna 29 punti. È un’iradiddio, o meglio dire un diavolo. Tiratore sì, ma amava anche fare a brandelli le difese con le sue azioni spesso e volentieri immaginifiche. Ancora oggi non ci si capacita di certe sue giocate.

IL SUO RAPPORTO CON GLI ALLENATORI non è sempre stato dei migliori, proprio per il suo temperamento. Eppure addirittura Ettore Messina, suo ct in occasione degli Europei del 1995, ha raccontato nel libro di aver imparato tanto da Esposito. E lui ha fatto tesoro degli insegnamenti dei tanti grandi tecnici che ha avuto quando è passato dall’altra parte della barricata. «Quando cambi ruolo è importante mettere da parte quello che è stato quando eri giocatore, ed è fondamentale mettersi a disposizione della squadra. Il carattere fumantino, magari, ti permette di gestire con maggiore personalità le situazioni, dall’arbitro al giornalista, dal dirigente al tifoso».

Forse, pensare che sarebbe diventato a sua volta un coach era una cosa inimmaginabile. Ma da allenatore, El Diablo, ha cercato di portare la sua idea di pallacanestro. Molto diversa dall’abuso del tiro da tre che è in voga adesso. «Il gioco è cambiato. Ma questo già quindici anni fa, con i primi lunghi che hanno iniziato a stazionare in maniera fissa sul perimetro. A me assolutamente non piace tutto questo tiro da tre, e quando allenavo mi davo l’obiettivo di costruire squadre sempre equilibrate».

«Pensa ai giocatori che ho avuto, Nathan Boothe, Alex Kirk, Jack Cooley, Dejan Ivanov, ho sempre cercato di prendere un lungo che potesse anche creare il gioco interno. Per me nella pallacanestro va utilizzato tutto il campo, invece oggi si gioca solo in contropiede e col tiro da tre. Il basket va in questa direzione, e bisogna dunque adeguarsi. Ma il problema è che i ragazzini non lavorano più sui fondamentali ma solo sull’atletica e il tiro. Questo va a vantaggio dello spettacolo, ma quando ciò non avviene si assistono a partite dall’indubbia bellezza».

Esposito ha rappresentato il ponte tra l’Italia e gli Stati Uniti. Ne ha conosciuto le abitudini, il modo di pensare e come lavorano. Per questo, chi meglio di lui può dare un giudizio sulla nascente lega della Nba Europe. «Gli americani sono i numeri uno per il business. C’è poco da dire. Non so di cosa si tratti nello specifico questa nuova lega, ma ci vedo tanto di business. Loro non fanno niente per niente, quindi oltre alla pallacanestro c’è una grossa fetta percentuale che riguarda il merchandising ed il reclutamento».

«È la direzione globale che sta prendendo il mondo. A me personalmente non piace, e non la considero una cosa vantaggiosa ed interessante per la pallacanestro europea. La potrei quasi definire come una G League fatta oltreoceano, con franchigie che saranno loro affiliate. E questo permetterà di abbattere le barriere e spianare molto più facilmente la strada per i giovani - ha concluso Enzo Esposito - che saranno attratti ad andare a giocare negli Stati Uniti».

Esposito da giocatore in Nba (foto Google)

Esposito è stato il primo colpo dell’era Seragnoli

L’associazione Il Fortitudino ha iniziato da alcuni anni ad intraprendere una sua linea editoriale con la pubblicazione di libri che raccontano giocatori passati per la Effe. Si è iniziato con Gary Schull e Charles Jordan, per arrivare a Enzo Esposito e a “El Diablo, vita e miracoli dell’ultimo poeta del basket italiano”. Già c’è stata una prima donazione col ricavato del volume al partner storico del gruppo di tifosi dell’Aquila, ovvero il Willy The King Group, associazione che si occupa della promozione della cultura dell’inclusione dei soggetti diversamente abili. Il libro ha avuto due ristampe, ed ha raggiunto già le 700 copie vendute in tutta Italia, dalla Sicilia al Friuli. Per chi lo volesse acquistare e farselo spedire può scrivere a info@ilfortitudino.it.

Dopo la presentazione a Bologna, è prevista un’altra serata promozionale a Caserta, e forse una ad Imola. Tutto dipende dalla disponibilità di Esposito. «Nonostante sia rimasto solo due anni alla Fortitudo, senza vincere nulla - ha detto Gabriele Pozzi, curatore del volume -, gode di un affetto anche maggiore di tanti altri campioni. Nel giorno del firmacopie c’era una fila immensa al PalaDozza. È stato il primo grande acquisto dell’era Seragnoli, in una squadra che giocava un basket strepitoso che seppur con una penalizzazione arrivò ai playoff qualificandosi per la Coppa Korac. Quando la tifoseria ricorda quei due anni che ha giocato per la Effe, sorride per la gioia».


* per la rivista Basket Magazine

venerdì 25 aprile 2025

Nazionale in sofferenza: alla ricerca del centro perduto

 

Da vent'anni, e dal tramonto degli ultimi grandi pivot di ruolo, l'Italia è a digiuno di medaglie: solo con un punto di riferimento importante sotto canestro la nazionale è riuscita a conquistare i risultati migliori

Alla ricerca del centro perduto

Nino Calebotta il primo gigante della nostra pallacanestro, Dino Meneghin la leggenda, la coppia Marconato e Chiacig gli ultimi esemplari. Servono coraggio e creatività per non soffrire la mancanza di lunghi


di Giovanni Bocciero e Matteo Cappelli*


 

“Cerco centro di gravità permanente”, cantava il maestro Franco Battiato. Il centro, o pivot, termine un po’ desueto oramai, per lunghi tratti della storia della pallacanestro ha inciso e deciso il gioco. Anche per quel che riguarda la nazionale italiana, che ha centrato i risultati più importanti potendo schierare un lungo di alto livello. Da Dino Meneghin perno dell’Italbasket prima medaglia d’argento alle Olimpiadi di Mosca 1980 e poi d’oro agli Europei del 1983, alla coppia Denis Marconato e Roberto Chiacig fondamentali per la medaglia più preziosa agli Europei del 1999 e poi per quella d’argento alle Olimpiadi di Atene 2004.

Certo, oggi il gioco è evoluto, si è trasformato, e magari le competenze dei centri sono da dividersi con il resto della squadra. Basti pensare ai rimbalzi, un fondamentale che prima magari era prerogativa dei giocatori lunghi, mentre adesso è spesso una questione di squadra. Già soltanto pensare al grande abuso del tiro da tre - sul quale abbiamo fatto un’inchiesta proprio nel numero precedente di BM -, produce un numero elevato di rimbalzi lunghi che sono fuori portata dei centri e sui quali devono avventarsi gli esterni. Ma proviamo ad andare alle origini del ruolo, e a capirne l’importanza nel contesto odierno, soffermandoci ovviamente in ottica azzurra.

Valerio Bianchini, tre scudetti ed una Coppa Italia con Cantù, Roma, Pesaro e Fortitudo Bologna, oltre a quattro trofei internazionali, è stato ct dell’Italia per il biennio 1985-1987. Diamo la definizione di centro?

«Nell’immaginario, il centro è un uomo grande e grosso, rimbalzista e stoppatore. Nel vecchio stile del basket era molto importante, oggi è però sparito come ruolo. Era prezioso perché il gioco si basava molto sull’asse composto dal play e dal pivot, ed entrambi erano dei creatori pur con competenze e posizioni differenti. Un lungo, infatti, giocando sotto e spalle a canestro spesso facilitava il gioco dietro la difesa, suggerendo ad esempio i tagli. Un elemento che ha portato alla sua estinzione come ruolo è stato il pick and roll. Questo porta il centro a dover salire ben oltre la linea dei tre punti per poi tagliare forte sfruttando il mismatch oppure per prendere il rimbalzo».

«Tutto ciò, in maniera epidemica - ha sottolineato il vate -, ha strappato il centro dall’occupare la posizione in post basso. Non lavorando più su questo fondamentale aspetto del gioco, quando un lungo riceve palla in quella posizione non ha la tecnica per usare i perni ma cerca un ingresso in area di forza. Ed è diventata una grande perdita per la qualità del gioco. Mettiamoci poi la psicosi del tiro da tre, ormai utilizzatissimo anche dai centri, che per caratteristiche anche morfologiche vi si addice di più rispetto al dover battagliare sotto canestro».

Denis Marconato con Dino Meneghin

Quando nella pallacanestro si parla della mancanza di centri, spesso si indica la pallavolo come colpevole di rubarci i ragazzi più alti. È verità?

«La pallavolo ha una maggiore presenza nelle scuole, e così vengono segnalati i ragazzi che hanno più qualità fisiche adatte alla disciplina. Nella pallacanestro il reclutamento avviene attraverso il minibasket, un movimento meritorio che è basato però sul pagamento delle quote da parte delle famiglie, e che quindi diventa una limitazione spaventosa. Il basket non mette in campo nessuna azione di penetrazione nelle scuole. E va anche detto che alzare una rete e giocare a pallavolo è più semplice, senza possibilità di contatti e conseguenti infortuni».

«Potrebbe essere un cavallo di Troia per l’intero movimento il basket 3v3 – ha osservato lo storico coach -, perché spesso i ragazzi si autoregolano senza avere necessità dei professori. La maggior parte dei quali non sa neppure da dove iniziare con la pallacanestro perché si tratta di un gioco complesso. C’è bisogno del controllo del corpo, di quello della palla e in generale del gioco collettivo, per nulla naturale rispetto al calcio o al volley. Mettere un canestro in un angolo della palestra, o nel campetto all’aperto potrebbe essere la soluzione per far nascere la passione da coltivare e far sviluppare successivamente in un club».

Però qualche giocatore c’è. Ad esempio, Caruso è stato medaglia d’argento al Mondiale Under 17 in Egitto nel 2017, mentre Totè è stato nominato Mvp del Fiba European Under 18 in occasione dell’Europeo 2015. Eppure, da giovani promesse né l’uno né l’altro sono riusciti a trovare spazio o ad esplodere definitivamente?

«Il sistema professionistico non è fatto per sviluppare il talento dei giovani. È fatto per utilizzare al massimo le possibilità che ha un giocatore di trovare spazio in squadra. In Italia succede che un club come Milano o Bologna prenda i migliori giovani per occupare i posti da giocatori formati senza però farli giocare. Questo è un male endemico anche in A2, dove gli allenatori sono sempre più precari e marginali, ma anche timorosi per cui non lanciano più i giovani».

«Tutto questo è anche causa del fatto che al termine del percorso giovanile - ha analizzato il tecnico due volte campione d’Europa con Cantù e Roma -, i ragazzi anche promettenti vengono gettati nel calderone dei campionati dilettantistici, che in realtà sono semiprofessionistici ma vengono così mascherati. S’interrompe la loro maturazione, proprio perché non c'è un campionato deputato. Ci vorrebbe una visione, ma al momento il mondo del basket non ce l’ha».

Ma c’è bisogno del centro per vincere, anche e soprattutto in ottica nazionale, visto che i migliori risultati azzurri sono arrivati con giocatori come Meneghin, Marconato e Chiacig in squadra?

«Per quanto riguarda la nazionale, c’è da dire che oltre ad una mancanza fisica, e quindi in assenza di giocatori di stazza, i pivot non hanno neppure la tecnica, cosa sempre più rara. Però non ci si può arrendere a questa mancanza, perché si può giocare anche con dei giocatori non altissimi, quasi esterni, che sanno creare spazio per le penetrazioni ed essere pericolosi al tiro. Con l’evoluzione del gioco ci possono essere alternative al pivot puro, ma bisogna avere le capacità per permettere alla squadra di giocare in maniera differente rispetto alla pallacanestro tradizionale».

«Un sistema da poter adottare è quello di affrontare gli avversari con più movimento, sia della palla che senza, sfruttando questi lunghi più dinamici in modo da creare spazi per le penetrazioni degli esterni. Ma non è facile - ha osservato Bianchini - perché la nazionale ha sempre poco tempo per sviluppare un gioco collettivo. E purtroppo ritengo che ancora per molti anni non avremo un pivot decente, per cui lo cercheremo in America. Ammesso che venga a giocare per noi».

Nino Calebotta è stato il primo gigante della pallacanestro azzurra. Alto 2.04 metri, di origini balcaniche ma cresciuto a Milano, è a Bologna sponda Virtus che si è fatto apprezzare per le sue qualità negli anni 50’ e 60’ partecipando anche alle Olimpiadi di Roma. È poi seguito Ottorino Flaborea, pivot bonsai di 1.97 metri, che con Varese ha vissuto gli anni migliori e vinto tutto, e più di una volta, tra cui scudetto, Coppa Italia, Coppa dei Campioni, Coppa Intercontinentale e Coppa delle Coppe. Alberto Merlati, 2.04 metri, ha invece vestito le maglie di Cantù, Gorizia, Venezia e Torino oltre a quella azzurra della nazionale.

Roberto Chiacig

Dino Meneghin, 2.05 metri di statuaria concretezza, il pivot per antonomasia quando si parla di centri italiani e della nazionale. Leggenda di Varese e Milano, con le quali ha messo insieme 12 scudetti, 6 Coppe Italia e 7 Coppe dei Campioni che ancora oggi rappresentano il record personale per un singolo giocatore. E poi, ovviamente, i grandi successi in azzurro. Come non ricordare i 2.12 metri di Luciano Vendemini, purtroppo stroncato in campo a causa di una malformazione cardiaca che aveva vestito le maglie di Cantù, Rieti e Torino.

«La maggior parte dei centri erano comunque americani anche prima - ha ricordato il vate Bianchini -. Quando ho allenato Roma, ad esempio, avevo Kim Hughes insieme a Fulvio Polesello. Tutti cercavano il lungo straniero, proprio perché la mancanza di ragazzi alti è sempre stato un problema endemico del basket italiano». Ario Costa, con i suoi 2.11 metri, ha segnato l’epopea di Pesaro con due scudetti e due Coppe Italia, ed ha rappresentato il primo centro moderno.

Denis Marconato (2.11) e Roberto Chiacig (2.10), entrambi vivaio Treviso prima di girovagare in lungo e in largo per lo stivale, sono stati gli ultimi centri con fisico e stazza, capaci di prendere posizione spalle a canestro. Contribuendo fattivamente alle ultime medaglie di prestigio dell’Italbasket. Andrea Bargnani (2.13), prima scelta assoluto del draft Nba 2006, ha rappresentato la vera rivoluzione del ruolo con le sue capacità balistiche che lo hanno portato a giocare oltre l’arco. Senza però incidere a livello di vittorie con la nazionale.

«La pallacanestro non va più di moda in Italia», questo il commento di Bogdan Tanjevic, ex coach della nazionale azzurra sulla crisi dei lunghi nel basket italiano. «Non è un caso che nella pallavolo ci sia stata un'esplosione di talenti sopra i 195 cm. Hanno sicuramente fatto qualcosa meglio di noi e soprattutto è più facile emergere». Uno sviluppo quello dei lunghi italiani che di anno in anno tarda ad arrivare, con esempi come Caruso rilegati in panchina o Totè che il ct Pozzecco non sembra vedere.

«Caruso per me ha fatto una scelta sbagliata, ma lo capisco, sicuramente Milano ha offerto delle cifre che le piccole-medie squadre non possono pareggiare. Il sistema è sbagliato, perché dovrebbe proteggere le squadre che non possono competere economicamente con le super potenze. I club sono costretti a vendere prima che effettivamente i prodotti dei vivai, o i giovani in generale, possano aver dato loro frutti. Su Totè invece, Pozzecco non ha un compito facile, ci sono passato. Difficile sfaldare un gruppo per inserire un nuovo giocatore. È più giusto forse puntare sulla continuità».

Un esempio, quello dell'Italbasket del passato che fa sì che da noi abbiano imparato Francia, Germania e Spagna, per poi addirittura superarci in tutto. Di pensiero leggermente diverso è Sandro Gamba, anche lui ex giocatore ed ex coach della nazionale azzurra, che sostiene che al problema che si presenta bisogna trovare una soluzione, e non necessariamente sulle convocazioni: «Anche quando giocavo io eravamo senza il centro super fisico di oltre due metri. Negli anni 50’, infatti, abbiamo giocato spesso pressing a tutto campo ed abbiamo alzato il ritmo sfruttando i lati positivi dei nostri fisici».

«Dipende dai tecnici, è una variabile, ogni allenatore deve fare il meglio possibile con la squadra che ha ed adattare le tattiche a seconda del roster a disposizione. Bisogna anche cambiare un po' con i giovani, magari metterli in campo e farli arrangiare, poi togliergli e spiegare l'errore». Una nazionale, dunque, che continua la disperata ricerca di un lungo che possa dare un futuro al ruolo in maglia azzurra, vista anche l'età che inizia ad avere ad esempio Nicolò Melli, fino ad ora inamovibile lungo dell’Italbasket.

 

Da Calebotta a Melli, gli anni ruggenti dell’Italia con centri veri

Nino Calebotta, 2.04, 1952 - 1968; 65 presenze e 410 punti;

Ottorino Flaborea, 1.95, 1957 - 1978; 129 presenza e 747 punti;

Alberto Merlati, 2.04, 1965 - 1975; 30 presenze e 123 punti;

Dino Meneghin, 2.04, 1965 - 1994; 271 presenze e 2947 punti;

Luciano Vendemini, 2.11, 1971 - 1977; 44 presenze e 157 punti;

Luigi Serafini, 2.10, 1971 - 1979; 112 presenze e 524 punti;

Vittorio Ferracini, 2.04, 1973 - 1982; 128 presenza e 504 punti;

Renzo Vecchiato, 2.07, 1977 - 1985; 201 presenze e 1439 punti;

Ario Costa, 2.11, 1977 - 1997; 193 presenze e 1048 punti;

Pietro Generali, 2.07, 1978 - 1983; 71 presenze e 458 punti;

Augusto Binelli, 2.15, 1984 - 1989; 95 presenze e 590 punti;

Flavio Carera, 2.06, 1985 - 1997; 129 presenze e 602 punti;

Stefano Rusconi, 2.08, 1987 - 1995; 94 presenze e 767 punti; 

Denis Marconato, 2.11, 1990 - 2006; 195 presenze e 1140 punti;

Alessandro Frosini, 2.09, 1992 - 1998; 98 presenze e 584 punti;

Roberto Chiacig, 2.10, 1994 - 2022; 188 presenze e 1475 punti;

Andrea Bargnani, 2.13, 2002 - 2017; 73 presenze e 1129 punti;

Nicolò Melli, 2.05, 2007 - presente; 124 presenze e 834 punti.



* per la rivista Basket Magazine

domenica 30 marzo 2025

Tiro da tre punti, croce e delizia

Tiro da tre punti, croce e delizia: Dan Peterson ha aperto la discussione chiedendone l'abolizione. Della Valle, Ruzzier e Veronesi fanno fronte comune: abolendolo si darebbe molto più peso alla fisicità degli atleti

Generazioni a confronto sul canestro della discordia

di Giovanni Bocciero e Alvise Baldan*

 

1984, A LIVELLO INTERNAZIONALE viene introdotto il tiro da tre punti nella pallacanestro. L’arco semiellittico viene disegnato su ogni campo da gioco, e il tirare con conseguente realizzazione vale un punto in più rispetto al semplice appoggio al tabellone o al tiro dalla media distanza. Una novità, una evoluzione, con tutti i suoi pregi e difetti. Questa invenzione, in realtà, era già stata sperimentata anni prima negli Stati Uniti, in particolare al college. È da anni che si discute di un suo forte abuso, a discapito del gioco che rende il basket il più bello sport al mondo. Dan Peterson ha recentemente dichiarato che lo abolirebbe, e a riguardo abbiamo ascoltato giocatori e allenatori, attuali e del passato, che su questa affermazione sono ampiamente divisi.

Amedeo Della Valle

Cosa pensi in merito alla dichiarazione di Dan Peterson che abolirebbe il tiro da tre punti?

«Ci sta che ognuno dica la propria opinione. Secondo me, la sua è stata una sorta di provocazione che credo sia difficile possa trovare un seguito nel basket moderno. Se togliamo il tiro da tre punti, forse, molto probabilmente le partite diventano un susseguirsi di spallate vicino al canestro. Quindi è evidente che la pensi diversamente rispetto a questo argomento».

Da tiratore, cosa ti passa per la testa se realizzi un filotto di canestri da tre punti, o al contrario ne sbagli tanti di seguito?

«Chiaramente come per qualsiasi cosa, quando funziona e va bene è molto più facile continuare a farle. Quando invece diventa complicato è molto più difficile ripeterlo. Penso però, che la forza di un tiratore s veda proprio nel momento di difficoltà, nel continuare a tirare e non rifiutare conclusioni. Quello è il più grande segno di un eccellente tiratore, che può fare una serata da 8/8 ma può farne anche una da 0/8».

Quale potrebbe essere un aggiustamento per far incidere magari meno il tiro da tre punti?

«Ad oggi proverei innanzitutto ad allargare il campo, visto gli atleti che calcano i campi. La pallacanestro potrebbe giovare di questa modifica, ma non dobbiamo dimenticare che il gioco è in continua evoluzione. Infatti, oggi stiamo vivendo la fase del tiro da tre punti, in passato altri stili di gioco, e in futuro cambierà ancora in base alle tendenze del momento».

Michele Ruzzier

Dan Peterson abolirebbe il tiro da tre punti, tu cosa ne pensi?

«Io personalmente non lo abolirei, e non la trovo una cosa giusta perché è l’evoluzione della pallacanestro. Rappresenta per ogni squadra un’arma in più, a maggior ragione per la fisicità che si vede oggi su un campo. Un giocatore deve tirare per forza bene da tre punti per cercare di aprire le difese. Il basket è uno sport in continua evoluzione, completo così com’è con il tiro da tre punti».

Il tiro da tre punti è ormai trasversale, nel senso che è un’arma sia per un esterno che per un lungo?

«È un’arma sulla quale c’è bisogno comunque di lavorarci. E se diventi bravo, è giusto che la sfrutti a tuo vantaggio. Ed oggi non dipende neppure dai ruoli. Prima, magari, il tiro da tre era usato di più dalle guardie, ma oggi lo possono fare anche ragazzi di 2,20 metri. E credo che sia una cosa positiva, e non certo negativa».

Quanto influenza segnare o sbagliare una serie consecutiva di conclusioni?

«Non so esattamente in che percentuale, ma oltre all’allenamento il tiro è tanto mentale. Se segni una tripla e ti capita subito un altro tiro aperto, che è giusto, devi prenderlo assolutamente. Dall’altro lato, anche se ne hai sbagliati un paio prima, ma la squadra costruisce un buon tiro e la palla arriva a te, è comunque da prendere. Magari sentirai il pallone pesare un po’ di più, ma è certamente giusto tirare».

Hai giocato con Marco Belinelli, uno dei migliori tiratori italiani in assoluto, cosa ci puoi raccontare di lui?

«Quando ero alla Virtus lo guardavo con gli occhi a cuoricino, perché era davvero uno spettacolo vederlo anche solo in allenamento. Non l’ho mai visto fare esercizi particolari per allenare il suo tiro. Semplicemente ha una mentalità diversa, pensa di segnare ogni singolo tiro che prende. Questo fa di lui un pericolo costante, perché anche se ha sbagliato i tre tiri precedenti, prenderà il quarto con la stessa sicurezza di chi è in striscia positiva».

Giovanni Veronesi

Abolire il tiro da tre punti, per Peterson, gioverebbe al basket. Per te?

«È normale che rispetto al basket di Peterson oggi si giochi un’altra pallacanestro. Ci sono spaziature e situazioni diverse, complice l’evoluzione del gioco. Ovvio che non cambierei nulla».

Cos’è che differenzia un tiratore, che segni o sbagli?

«Per un tiratore è importante non perdere mai la fiducia, perché altrimenti non può neppure definirsi un tiratore. E infatti, ci sono tanti giocatori che hanno magari vissuto soltanto un periodo felice. Nel mio caso posso dire di avere avuto sempre grande fiducia, sia da parte di allenatori e compagni che a livello personale nei miei mezzi. Poi è naturale che ci sono momenti positivi e altri negativi, ma bisogna sempre avere il coraggio di continuare a tirare, senza esagerare».

Il tiro da tre punti serve più allo spettacolo che al gioco?

«Credo che bisogna fare una distinzione tra il basket che si vede in Nba e quello in Europa. In America effettivamente si tira tanto da tre punti, e il più delle volte in situazioni del tutto estemporanee al gioco. In Europa no, perché anche se si abusa del tiro da tre, questo rientra più in un contesto di costruzione del gioco. O almeno questo è il mio pensiero. Poi ovvio, se la pallacanestro ha un successo planetario ed è seguita in tutto il mondo è anche per giocatori come Steph Curry e Klay Thompson che sono tra i migliori interpreti del tiro da tre punti».

Valerio Bianchini

Qual è il suo pensiero riguardo all’uso del tiro da tre punti nella pallacanestro di oggi?

«Il tiro da tre punti lo ricordo addirittura come un’innovazione che fece l’Aba (American Basketball Association, lega professionistica americana di pallacanestro tra il 1967 ed il 1976, ndr), usandolo inizialmente in circostanze speciali, come per esempio cercare di recuperare alla fine della partita. All’inizio non era considerato un elemento istituzionale del gioco, era un elemento normale. Ricordo che nell’84/85 Mike D’Antoni, che normalmente non era un gran attaccante, grazie ai blocchi di Dino Meneghin cominciò a tirare con i piedi per terra perché i difensori uscivano poco, restando così schiacciati sul blocco. Iniziò così ad avere più coraggio, più iniziativa, diventando un tiratore dall’arco. Per molti anni il tiro da tre punti rimase utilizzato in certe circostanze, non nel modo ossessivo odierno. Addirittura anche i lunghi cominciarono, tramite il pick and roll, a preferire il tiro da più lontano piuttosto di un appoggio da dentro il pitturato. Questo sinceramente rende il gioco un po' noioso, ripetitivo. Gli allenatori hanno smesso di fare ricerca, di fare sperimentazione. Nel basket classico il gioco delle squadre in campo veniva immediatamente identificato per l'allenatore che lo governava. Per esempio il gioco di Guerrieri, di Zorzi, di Peterson. C'era molta più coerenza tra la teoria del gioco di un allenatore rispetto all’esecuzione in campo. Adesso, invece, c’è un’omologazione dove la maggior parte gioca allo stesso modo. C'è da dire, però, che la pallacanestro ha reso ancora più imprevedibile le partite. L’altra faccia di questa medaglia è che non c’è più meritocrazia, tu puoi giocare benissimo ma se hai scarse percentuali al tiro da tre perdi la partita contro uno che sta giocando male ma con buone percentuali da tre. A portare a questa deriva tecnica un po' insensata è stata la Fiba e il suo regolamento, perché il basket concettualmente è sempre stato un gioco che ogni quattro anni cambiava il suo regolamento. Il gioco si adeguava allo sviluppo sociale dell'area popolare in cui era inserito e variava soprattutto in relazione ai marchingegni tecnici. La Fiba si riduce a seguire l’Nba, ma senza una ragione. Nello smile, nei trenta secondi, nello stesso tiro da tre, non seguendola, però, nei tre secondi difensivi che sono importanti per consentire la penetrazione nell’uno contro uno. Attualmente il gioco si sta riducendo sempre di più all’uso scriteriato del pick and roll, alla cancellazione del lavoro in post, sia alto che basso, ed al rifugio nel tiro da tre. Certamente non è questo il vero basket».

Nelle sue esperienze tra Cantù e Roma, ha vinto due scudetti e due Coppe dei Campioni senza il tiro dalla lunga distanza. Dopo l’introduzione di questa nuova regola è stato più facile o più difficile allenare?

«È stato più facile allenare perché il tiro da tre era utilizzato senza, tuttavia, diventarne dipendenti. Adesso per gli allenatori è più facile. Non insegnano più i movimenti sofisticati del post basso ai pivot, per passare più volte la palla fuori per un tiro da tre. Dal punto di vista estetico è una cosa inguardabile, però la situazione è questa. Conta solo l’uno contro uno, il gesto spettacolare della superstar della squadra».

Ha un aneddoto da raccontarci legato al tiro da tre punti?

«Quello più clamoroso fu con la Virtus Roma, durante la stagione 1990/91, quando eravamo sotto di due punti contro Caserta ad un secondo dalla fine. Ricordo una rimessa a bordo campo per Maurizio Ragazzi che, ricevuta la palla a tre metri dalla nostra linea di fondo, segnò il canestro della vittoria».

Bogdan Tanjevic

Cosa ne pensa del tiro da tre punti?

«Il mio pensiero è molto simile a quello di Dan Peterson. Penso sia meglio il vecchio modo di giocare piuttosto che il continuo aumento del tiro dalla lunga distanza. Si è arrivati addirittura a parlare dell’inserimento del tiro da quattro. Negli ultimi vent’anni i giocatori sono diventati dei grandi tiratori e le distanze, soprattutto grazie all’atletismo, sono diventate facili da eseguire. In Nba fino a trent’anni fa esistevano solo tre o quattro tiratori nel campionato. Adesso sono diventati centocinquanta. Un pro può essere legato ai giocatori europei, un esempio di tecnica di tiro e di precisione che arrivarono ad un livello fantastico di capacità del tiro dalla lunga distanza. Dei contro, invece, possono essere il poco gioco sotto canestro, il mancato utilizzo dei pivot, le poche penetrazioni ed il tiro da quattro metri dei campioni come Jordan e Dalipagic. In passato i grandi tiratori non si concentravano esclusivamente sul tiro da tre punti e il gioco era molto più interessante, più affascinante. Adesso si è talmente fissati nel trovare qualcuno di libero fuori dall’arco, di scaricargli la palla anche quando sarebbe molto più intelligente segnare due punti sicuri. La linea dei tre punti la chiamo il “bordo della piscina”, come se ci fosse dell’acqua dentro. Non bisogna entrarci troppo. Questa furia di tirare e di correre in avanti non la vedo bene. Mi piace di più il basket di prima».

Il tiro da tre punti è diventato una sorta di arma offensiva, diciamo, troppo abusata, troppo utilizzata?

«Troppo abusata, non c'è dubbio. Si vedono molte squadre che tirano più da tre punti che da due. Così il gioco diventa meno attrattivo. In poche parole non bisogna focalizzarsi troppo sul tiro da tre. Per fare un esempio, quando Dalipagic segnò settanta punti lo fece con soli quattro canestri da tre punti in tutta la partita. Poteva tranquillamente essere il capocannoniere Nba, se ci fosse andato».

Antonello Riva

Qual è la sua opinione sul tiro da tre punti?

«Nei primi anni ci fu un grande clamore che richiamò tanta attenzione attorno a questa nuova regola, al nostro movimento.

Se poi, dopo tanto tempo, dobbiamo analizzare se è stato un pro o contro, i dubbi sono aumentati. Una cosa su tutti: il gioco è stato veramente stravolto e in maniera netta. Mi ricordo gli anni in cui giocavo a Milano quando era allenata da Mike D’Antoni. Lui sosteneva che statisticamente non conveniva andare a tirare da due ma conveniva tentare più tiri possibili dalla linea dell’arco. Ed è proprio questo, come stavo dicendo, che ha stravolto il modo di giocare. Il tiro da due, il cercare di andare vicino al canestro è praticamente quasi sparito. Poi, ecco, bisogna vedere se è effettivamente più spettacolare, più bello da vedersi oggi, o se era più bello un tempo quando non c’era il tiro da tre e si cercava di costruire maggiormente il gioco d'attacco».

Lei pensa, dunque, che sia diventato una sorta di arma offensiva un po' troppo abusata?

«Sì, in particolar modo perché questa linea non è così lontana dall’Nba. Vediamo diversi giocatori tirare da addirittura nove o ancora più metri. Mantenerla così com’è, oggi in Italia, è troppo utilizzata. Penso, tuttavia, che per lo spettacolo e per gli spettatori, vedere un tiro o un canestro da tre sia sempre un gesto tecnico spettacolare, anche se ha tolto un pochino la vera essenza, la vera sostanza della pallacanestro».

Se lei fosse un giocatore di questi tempi, si adatterebbe al modo di giocare attuale, ad un ritmo più elevato e a un numero maggiore di tiri da tre punti, o cercherebbe di rimanere al gioco di qualche anno fa, dove il tiro da tre punti non era così esasperato e si puntava un po' di più al gioco tecnico?

«No, è naturale che bisogna sempre adeguarsi ai tempi. Se fossi un giocatore di questi tempi mi adeguerei sicuramente alle nuove situazioni. Però vedo che alcune volte i giocatori, che potrebbero fare un arresto e tiro tranquillo dai tre, quattro metri, vanno dritti al ferro o cercano la soluzione nel tiro dalla lunga distanza. Negli anni passati, si utilizzava la finta da tre punti, un palleggio, due palleggi ed un arresto, ripeto a tre o quattro metri. Questo movimento oggi è sparito completamente».

Un’ultima domanda: ha un aneddoto su questo argomento da raccontare?

«Mi ricordo ancora benissimo la prima partita quando era appena entrato in vigore. Era la prima partita del campionato 1984/85, successivo alle Olimpiadi di Los Angeles, quando con Cantù andai a giocare a Pesaro che al tempo aveva un allenatore americano che si era messo a difendere a zona. Non mi sembrava vero e quel giorno realizzai nove o dieci canestri da tre punti. Da un momento all’altro ci aspettavamo che Pesaro passasse a difendere individualmente, invece continuò con la difesa a zona. Era la prima partita, la prima volta che venivano conteggiati i tiri al di là dell'arco. Era, in poche parole, una novità».

Nonostante le differenti posizioni, le statistiche ci possono offrire degli spunti interessanti. Perché non sempre tirare e segnare tanto ti permette di vincere. Trento e Varese, ad esempio, sono le due squadre della serie A che hanno terminato il maggior numero di partite con almeno dieci triple segnate, eppure le posizioni in classifica sono molto differenti. In media una giusta percentuale dall’arco che si può ritenere positiva è del 35%, che significa poco più di una realizzazione su tre tentativi. Eppure con due canestri su tre dalla media distanza o addirittura più vicino al canestro, e dunque con una probabilità maggiore di riuscire a segnare, frutterebbe 4 punti. Che batterebbero i 3 realizzati dall’arco.

* per la rivista Basket Magazine

giovedì 20 febbraio 2025

Italbasket, il coro azzurro del Poz promosso in toto ad Istanbul

 L’Italia vince ad Istanbul contro la Turchia per 80-67, brillando per coralità e gioco di squadra.

 

ITALIA

Dame Sarr 6: entra e perde un pallone in compartecipazione con Severini, ma si rifà subito con una schiacciata devastante.

Matteo Spagnolo 7,5: indica la strada nel primo e decisivo allungo, con grande sfrontatezza arriva al ferro.

Gabriele Procida 7,5: parte piano, lotta, conquista qualche rimbalzo, poi fa vedere di che classe è dotato e segna canestri bellissimi.

Saliou Niang sv

Grant Basile sv

Giordano Bortolani 7,5: con un attacco sterile, è la prima scelta del Poz, e lui dopo qualche forzatura mette punti a raffica.

Guglielmo Caruso 7: ottimo impatto, si muove bene e attacca gli spazi senza palla facendosi trovare pronto.

Mouhamet Diouf 7,5: prestazione solida sfiorando la doppia doppia (8 punti e 10 rimbalzi), spizzicando palloni e dando un punto di riferimento.

Riccardo Rossato 6: nel tempo in campo fa quello che gli riesce meglio, mettere tanta energia e difendere.

Luca Severini 5,5: l’unica nota stonata del coro azzurro, non incide ed è impalpabile.

Nicola Akele 7: tanta presenza, tanta energia, lucido in attacco ed in difesa, conquistandosi con merito ogni singolo secondo.

Alessandro Pajola 8: partita esemplare, da leader, da capitano, e con tre triple pesantissime che non sono proprio la specialità della casa.

All. Gianmarco Pozzecco 8: idee chiare, gioco semplice, tanto movimento senza palla che muove la difesa, e il diktat di attaccare gli spazi senza forzare il tiro da tre.


TURCHIA

Shane Larkin 5,5: spazzi di fenomeno nel primo quarto, poi si eclissa.

Sehmus Hazer 7: il migliore, quello più incisivo e forse che ci crede di più.

Cedi Osman 6,5: subito una bomba, macina punti ma non sembra efficace.

Onuralp Bitim 6: l’ultimo ad arrendersi o semplicemente nel posto giusto al momento giusto.

Sadik Emir Kabaca 5: tanti gli errori, pochissime le cose positive.

Furkan Haltali 5,5: subisce i lunghi italiani.

Sarper David Mutaf sv

Furkan Korkmaz 5,5: quasi non si vede, e non ci si crede.

Ercan Osmani 6,5: ci prova, si sbatte, tra i migliori nonostante tutto.

Erkan Yilmaz sv

Kenan Sipahi 5,5: si vede soprattutto all’inizio, poi scompare.

Muhsin Yasar sv

All. Ergin Ataman 5: nonostante i proclami della vigilia, la sua squadra sembra non esserci.

 

Giovanni Bocciero